G. Rodari, Il libro degli errori. Torino: Einaudi, 1964.
G. Rodari, Il libro degli errori. Torino: Einaudi, 1964.
Tra il Gran Canyon e la Cappella Sistina
A portarci in Cappadocia fu la forza di una frase, altrimenti il nostro viaggio sarebbe terminato ad Ankara, dove andavamo apposta da Istanbul per vedere un museo.
Ultima serata a Istanbul, una cena a casa di amici. Fra gli invitati, inaspettatamente, una persona di mia conoscenza. Metà americana e metà fiorentina, docente di matematica a New York, da un anno era visiting professor all’Università di Istanbul, e la Turchia l’aveva girata in lungo e in largo. Non so se è perché frequenta le Matematiche, ma è capace di cortocircuiti di idee che vanno al di là della logica comune. “La Cappadocia? È un incrocio fra il Gran Canyon e la Cappella Sistina”, mi disse. Non si può resistere a una definizione come questa.
Ad Ankara, prima tappa, visitammo il museo che avevamo in programma, quello delle Civiltà anatoliche, forse anche perché avevo sempre sospettato che gli Ittiti fossero una fantasia del mio vecchio professore del liceo, e da quel museo aspettavo una conferma o una smentita. Aveva ragione il mio professore: gli Ittiti, per me popolo dal nome di pesci immaginari, sono esistiti davvero, e il Museo delle Civiltà anatoliche, con quelle stupefacenti statuette che sembrano uscite dal ventre del Tempo, lo testimonia senza possibilità di smentite.
L’aereo per la Cappadocia era al completo per i tre giorni successivi, così affittai una macchina e dopo un viaggio non proprio comodissimo di qualche centinaia di chilometri la sera arrivammo ad Ürgüp, la città più importante di quella regione di montagne erose dal vento e dipinte dagli uomini. Con un paesaggio lunare di monti di tufo (cenere, lava e fango, la zona è vulcanica) scavati dalle intemperie e altissimi funghi calcarei detti “camini delle fate” (Pasolini vi girò la sua Medea), la regione cela all’interno delle montagne chiese e cappelle decorate da straordinari affreschi bizantini. Dotate di depositi per grano, stalle, cucine, condutture d’aria, enormi stanze per riunioni e dormitori, queste vere e proprie città scavate nella roccia (le più celebri quelle di Özkonak, Tatlarin, Kaymakli, dove si rifugiarono i cristiani nel settimo secolo per sfuggire alle persecuzioni, evitanto le invasioni turche e il conflitto con Bisanzio iconoclasta) sono una stupefacente dimostrazione della resistenza e dell’adattamento umano.
Non è sempre facile penetrare in questi labirinti sotteranei. A volte è necessario percorrere lunghi cunicoli carponi, o comunque in condizioni disagevoli, e per chi soffre di claustrofobia è più prudente una visita al monastero di Eskigümüs, dove gli affreschi bizantini, mai ritoccati, si sono conservati in maniera stupefacente. Oppure al museo all’aria aperta di Göreme, un complesso monastico di chiese e cappelle rupestri con affreschi straordinari, uno dei siti archeologici più famosi della Turchia. Di quel luogo mi è rimasta impressa nella memoria una piccola chiesa (non ne ricordo il nome, e non l’ho scritto sul mio taccuino di viaggio), con le raffigurazioni di un inferno dove i dannati sono avvolti fra le spire di serpenti (ricordo con esattezza i portentosi e surreali serpenti, mentre i dannati mi sembrarono seriali).
A Ürgüp ci fermammo alla Esbelli Evi Pension, un minuscolo convento troglodita con sei o sette stanze che alcuni anni fa un giovane avvocato turco ha trasformato in hôtel de charme. Credo che ultimamente abbia avuto numerose imitazioni, probabilmente non all’altezza del modello. La decorazione delle stanze, con mobili antichi scelti dal proprietario, è elegante ma non snob; i tappeti (alcuni antichi di famiglia) bellissimi; pochi gradini conducono a un terrazzino privato con una vista superba. In ogni camera una decina di libri di ottima qualità in varie lingue, e il soggiorno comune è dotato di una nastroteca impressionante (il proprietario è un raffinato melomane). Inoltre (fortuna sfacciata) vi trovammo un’arpista che abitualmente vi si ritira a studiare prima di ogni concerto. Suonava nella luce della sera inginocchiata su un piccolo tappeto kilim, le mani che sembravano danzare nell’aria.
Maria José si ricordò di un verso di Pessoa e lo recitò in una lingua che la musicista comprendeva: “Oh suonatrice di arpa, potessi baciare il tuo gesto senza baciare le tue mani!” E lei improvvisò un piccolo concerto solo per noi.
A.Tabucchi, Viaggi e altri viaggi. Milano: Feltrinelli, 2010.
Roma. È notte. Mario dorme. Suona il telefono. Mario risponde.
Mario – Pronto?… Chi parla?
Paola – Ciao Mario. Sono Paola.
Mario – Paola?
Paola – Sì, sono io. Cosa fai? Dormi?
Mario – Certo che dormo! Sono le due di notte! Cosa vuoi a quest’ora?
Paola – Ho un problema…
Mario – Un problema? Che problema?
Paola – Mario… Io… Io non…
Mario – Si può sapere cosa è successo? Hai avuto un incidente con la macchina? Non ti senti bene?
Paola – No, niente di tutto questo.
Mario – E allora, perché mi hai chiamato?
Paola – Perché non riesco a dormire.
Mario – Cosa?… Mi hai telefonato per dirmi questo?
Paola – Sì, scusa… Ti ho svegliato, vero?
Mario – Ma sì, te l’ho detto! Stavo dormendo… Dove sei adesso?
Paola – A Milano, in albergo. Sono qui per lavoro. Domani ho una riunione importante. Sono molto nervosa, non riesco a dormire.
Mario – Non hai un sonnifero?
Paola – No, lo sai che non prendo mai medicine.
Mario – Allora bevi una camomilla!
Paola – Non posso. Al bar dell’albergo hanno solo il tè, la camomilla non c’è!
Mario – E io cosa posso fare?
Paola – Non lo so… Parla! Dimmi qualcosa…
Mario – Sei matta? Io ho sonno, voglio dormire!
Paola – Anch’io voglio dormire!
Mario – Allora buonanotte!
Paola – No, un momento! Io sono tua moglie, non puoi lasciarmi così!
Mario – Ma Paola: noi siamo divorziati da sei anni! Tra noi tutto è finito. Adesso sono un uomo libero, per fortuna…
Paola – Cosa vuoi dire? Forse c’è qualcun altro là con te? Hai un’altra donna?
Mario – Noooooo, sono solo!
Paola – Perché gridi? Sei nervoso?
Mario – Sì, sono nervoso perché non riesco a dormire! È chiaro?
Paola – Allora prendi una camomilla!
Mario – No, è inutile. Quando sono troppo nervoso non c’è niente da fare. Lo sai anche tu. Adesso non dormo più, sei contenta? Starò sveglio tutta la notte. Su, dimmi qualcosa… Stai bene? Hai molto lavoro? Quando torni a Roma?
Paola – …….
Mario – Paola? Paola? Perché non rispondi? Paolaaaaaa?!
Paola – zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz……… zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz…..
De Giuli – C. M. Naddeo, Piccole Storie d’amore. Firenze: Alma, 1999.
Da due o tre giorni, da quando si è messo a fare il caldo che fa, non c’è telegiornale che non spunta con uno con la faccia uguale uguale a quella di un predicatore di Quaresima e ci viene a contare che la colpa è tutta nostra, inutile lamentarsi. Avete voluto usare il carbone? Ve la siete scialata col metano? Allora tenetevi il caldo e muti tutti. Questo è l’effetto serra, ci vengono a spiegare mentre ci talìano con l’occhio del maestro che sta per darti zero di condotta: è lo sviluppo industriale che ha fatto il danno. Io, che non posseggo industrie e che di metano me ne basta quanto ne serve a scaldarmi il caffè, però mi domando: siamo proprio sicuri che le cose stanno come ce le raccontano i quaresimalisti? Dalle mie parti c’è un proverbio antichissimo, secolare, che recita così: “Giugnettu, ’nzoccu haju iettu” che tradotto in bell’italiano suona “Giugnetto, tutto ciò che ho getto” e che ulteriormente tradotto viene a significare che il contadino che travaglia sui campi ai primi di giugno (ecco il perché del diminutivo) se non getta via tutti i vestiti che ha addosso non ce la fa più ad andare avanti col lavoro per il caldo che l’avvampa.
Come la vogliamo mettere? Al tempo in cui l’esperienza contadina coniò questo detto non c’erano ciminiere che fumavano e il fornello si accendeva una volta la settimana (quando andava bene) per fare il cotto. “Eh no, bella forza!” mi dirà il solito contraddittore “Tu ci vieni a citare un proverbio dal profondo Sud al quale appartieni e si vede da come scrivi. Se non fa caldo lì dove vuoi che lo debba fare?” D’accordo, non vale.
Allora porto la testemonianza di uno straniero “Purché non sia svedese” dirà il contraddittore credendosi furbo. Lo straniero che cito era francese e si chiamava Henri Beyle ma lui si firmava Stendhal. Amava il nostro paese e soprattutto gli piaceva passeggiare per Roma. Siamo nel 1828, per la precisione il 2 de giugno. Stendhal comincia il diario così: “Fa un caldo soffocante. Il bisogno di un po’ di fresco ci ha ricondotto in Vaticano”. E per quel giorno si rinfresca ammirando le stanze di Raffaello. Il 5 di giugno la musica non cangia e il nostro amico è costretto a infilarsi tra gli alberi di una villa patrizia per godersi tanticchia d’ombra. E metto subito le mani avanti: non si è trattato della calura eccenzionale di un’annata eccezionale. Difatti sei anni appresso scrive ancora nel suo diario sempre riferendosi al clima di Roma: “Il caldo impedisce di pensare”. E dopo viene una nota che pare scritta da uno che si è perso in mezzo al deserto: “Pioggia, al fine!”.
E mi voglio fermare qua non perché mi vengono a mancare altre testimonianze ma proprio perché non ce la faccio per il gran caldo che sta facendo in questo momento a mettermi a scartabellare libri. Ma in fondo, a considerare bene tutta la faccenna, si può sapere perché tutti se la pigliano col caldo? Io, per esempio, col caldo ci campo benissimo. Una volta ho fatto una gara di immobilità sotto il sole con una lucertola e ho vinto io. Quindi mi escludo. Ma vi chiedo: se non ci fosse il caldo, ve lo godreste così tanto il venticello serale immortalato da una canzone romana famosa? Se non ci fosse caldo, come fareste a govervi tutta la grazia di Dio che erompe da minigonne e generose scollature? Se non ci fosse caldo, come fareste a godere della sottile, argentina musica delle fontane di Roma? In tre frasi il caldo mi ha fatto scrivere tre volte il verbo godere, credetemi non è stato un errore. E allora, siccome il Signore, e non l’effetto serra, vuole così, godiamocelo questo caldo.
Andrea Camilleri, Racconti quotidiani. Milano: Mondadori, 2007.
A Coordenadoria de Vestibulares e Concursos da PUCSP acaba de publicar a lista dos aprovados no exame de proficiência em línguas estrangeiras dos candidatos e alunos da Pós-Graduação (mestrado e doutorado).
Para ter acesso à lista, clique aqui. Obtenha também seu boletim de desempenho digitando o CPF no local indicado.
Estou muito feliz!!! Todos meus alunos foram aprovados, parabéns!!
Mônica Gonçalves
Foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da PUC-SP. As provas de proficiência em língua estrangeira serão realizadas entre os dias 11 e 18 de novembro de 2013.
A prova de italiano será no dia 12.11.2013 das 14:00 às 16:00. Os candidatos deverão comparecer até às 13:50 ao Campus Monte Alegre – Rua Ministro Godói, 969 – Perdizes.
As inscrições deverão ser feitas através do site www.concursos.pucsp.br no período de 14 de outubro a 08 de novembro de 2013.
Para informações e orientação mais detalhadas, leia o edital clicando aqui.
La guida spiegava ai turisti svizzeri venuti a visitare Roma che il piano stradale della città nei tempi antichi era di circa quattro metri piú basso di quello dove oggi camminano gli uomini e passano le automobili. Tutti i turisti svizzeri non volevano crederci e domandavano come mai la terra invece di consumarsi a forza di passarci sopra, fosse cresciuta di quattro metri. La guida spiegò che il livello del terreno era aumentato perché nel corso dei secoli erano caduti a terra i calcinacci delle case, gli sputi della gente, le cicche delle sigarette, le cartacce, le bottiglie rotte, le bucce delle arance, i noccioli di ciliegia, i biglietti degli autobus, le scatole di fiammiferi, le cacche dei cani e dei gatti.
I turisti svizzeri non volevano crederci, erano scandalizzati e dicevano tutti insieme che questo in Svizzera non sarebbe mai successo perché loro non gettavano mai niente in terra e insomma loro sapevano come si tengono pulite le città.
– Noi romani saremo dei gran sporcaccioni, – disse la guida che era romana e si era offesa, – ma siamo stati capaci di fare Roma. E voi?
Storiette tascabili, Luigi Malerba, Einaudi Ed., 1994
Caros alunos,
Acaba de ser publicado o gabarito da prova de proficiência em idioma estrangeiro aplicada ontem, dia 21/07/2013, pela FUVEST. Para acessá-lo clique aqui.
Mandem-me notícias, um abraço.
Mônica
As inscrições para as provas de proficiência em idioma estrangeiro do processo seletivo ao programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP poderão ser realizadas no período de 24/06 a 04/07/2013 somente no site da FUVEST.
Como prevê o edital, as provas serão aplicadas pela FUVEST nos dias 20 e 21 de julho de 2013. A prova de italiano será realizada no domingo, dia 21 de julho, às 14h (horário de chegada 13:30h), com duração de duas horas e meia.
O exame constará de 30 questões, em forma de teste, com cinco alternativas, sendo correta apenas uma. Todas as questões terão igual valor. A nota mínima para aprovação é 7,0 (sete), na escala 0-10.
O exame será realizado no Prédio da Engenharia Civil da Escola Politécnica da USP (POLI), situado à Av. Prof. Almeida Prado, Travessa 3 – Cidade Universitária, Bairro Butantã – São Paulo.
Para informações e orientação mais detalhadas, leia o informe clicando aqui.
In bocca al lupo!
Hoje, dia 12.04.2012, foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP para o ano de 2014.
Os exames de proficiência em idioma estrangeiro serão realizados nos dias 20 e 21 de julho e as inscrições deverão ser feitas no período de 24 de junho a 04 de julho de 2013 através do site da FUVEST.
Para orientação e informações mais detalhadas, clique aqui para acessar o site da FDUSP, entre em “Pós-Graduação”, em seguida, em “Últimas Notícias” e leia o edital.
Vamos estudar, pessoal!!! Um abraço,
Mônica Gonçalves
La scena si svolge in uno scompartimento del treno Roma Agrigento. Protagonisti sono i componenti di una famiglia siciliana: padre, madre, e due bambini, Lulù di sei anni e Nenè di quattro.
UN BAMBINO IMPERTINENTE
Voglio mangiare! – gridò Nenè – Voglio mortadella, voglio banane.
– E io voglio un’aranciata – disse Lulù.
– Mortadella niente, ti fa venire l’orticaria – disse la madre. Indicò macchioline rosse sulle braccia di Nenè.
– Mortadella: o faccio l’asino di don Pietro – disse Nenè con una faccia che prometteva immediata attuazione.
– Come fa l’asino di don Pietro? – gli chiese la ragazza(1): divertita, ché evidentemente lo sapeva.
Nenè scivolò dal sedile per dare una risposta figurata.
– Per carità! – gridarono padre e madre agguantandolo. L’asino di don Pietro, spiegarono all’ingegnere, usava strusciarsi a terra a gambe per aria, furiosamente. Nenè riusciva a farne una perfetta imitazione.
Gli diedero mortadella.
– Voglio ancora mortadella – disse Nenè.
– Nomina ancora mortadella: e viene il maresciallo ad arrestarti – minacciò il padre.
– Non la nomino: la voglio – disse Nenè prontamente aggirando il veto.
– È intelligente quanto un diavolo – disse il padre con orgoglio.
– La voglio – ribadì Nenè
– No, no e no – disse il padre
– Appena arriviamo a casa – disse Nenè – a zia Teresina racconterò che l’avete sparlata con zio Totò.
– Noi l’abbiamo sparlata? – disse la madre mettendosi la mano sul petto, preoccupata ed accorata.
– Tu e papà; avete detto a zio Totò che la zia è avara, che non si lava, che fa azioni maligne – precisò Nenè con feroce memoria.
– Gli dò la mortadella – disse il padre.
– Dagliela – approvò la madre – e quando sarà tutto rosso d’orticaria, tutto prurito, andrà a farsi grattare da zia Teresina.
– Mi gratto contro il muro – disse Nenè vittoriosamente afferrando la mortadella che il padre gli porgeva.
(L. Sciascia, Il mare colore del vino,Torino, Einaudi)
Foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da PUC-SP. As provas de proficiência em língua estrangeira serão realizadas entre os dias 08 e 14 de maio de 2013.
A prova de italiano será no dia 09.05.2013 das 14:00 às 16:00. Os candidatos deverão comparecer até às 13:50 ao Campus Monte Alegre – Rua Ministro Godói, 969 – 2º andar – Perdizes.
As inscrições deverão ser feitas através do site www.concursos.pucsp.br no período de 01 de abril a 03 de maio de 2013.
Para informações e orientação mais detalhadas, leia o edital clicando aqui.
A Alma Edizioni tem uma coleção bem legal para começar a ler em italiano. Os livros são divididos em níveis (VERDE: 500 palavras, AZUL: 1000 palavras, etc) e contêm um CD áudio. Assim, o iniciante pode adquirir estruturas e vocabulário gradualmente. Conheça o material clicando aqui.
Aproveite para conhecer também as coleções da Guerra Edizioni, são várias opções para aproximar-se da leitura em italiano com prazer e diversão.
Em um passeio pela Livraria Cultura vi que eles têm diversos exemplares dessas coleções. A SBS – Special Book Service e a Livraria Italiana também são boas alternativas para compras online.
Buona lettura!!!
Tetro e ogivale è l’antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d’inverno. E l’adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c’è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale – ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L’arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l’arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l’inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. “Chi bussa alle porte del Duomo” si chiese don Valentino “la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?” Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.
“Che quantità di Dio! ” esclamò sorridendo costui guardandosi intorno- “Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. ”
“E’ di sua eccellenza l’arcivescovo” rispose il prete. “Serve a lui, fra un paio d’ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore.”
“Neanche un pochino, reverendo? Ce n’è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!”
“Ti ho detto di no… Puoi andare… Il Duomo è chiuso al pubblico” e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c’era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all’improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d’ore l’arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c’era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n’andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l’indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l’un l’altro e intorno ad essi c’era un poco di Dio.
“Buon Natale, reverendo” disse il capofamiglia. “Vuol favorire?”
“Ho fretta, amici” rispose lui. “Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno.”
“Caro il mio don Valentino” fece il capofamiglia. “Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino.”
E nell’attimo stesso che l’uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
“Ma che cosa fa, reverendo?” gli domandò un contadino. “Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?”
“Guarda laggiù figliolo. Non vedi?”
Il contadino guardò senza stupore. “È nostro” disse. “Ogni Natale viene a benedire i nostri campi.”
” Senti ” disse il prete. “Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l’arcivescovo possa almeno fare un Natale decente.”
“Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi.”
“Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì.”
“Ne ho abbastanza di salvare la mia!” ridacchiò il contadino, e nell’attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell’atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all’orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. “Aspettami, o Signore ” supplicava “per colpa mia l’arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!”
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d’angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
“Fratello” gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli “abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego.”
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.
“Buon Natale a te, don Valentino” esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. “Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”
Dino Buzzati, La boutique del Mistero, Mondadori, 1992 – pag. 90/94
Paolino aveva sentito parlare del futuro. Che cosa è il futuro? Una cosa che deve ancora venire. E quando viene? Viene viene, basta aspettarlo. Ma come faccio a riconoscerlo? Questo è più difficile perché quando arriva non è più futuro ma è presente. Se sto molto attento e lo sento mentre sta per arrivare, quello è il futuro? Se lo senti mentre sta arrivando allora sì, quello è il futuro.
Paolino prese una seggiola e si mise ad aspettare, ma era molto disturbato da quelli che gli stavano intorno, i genitori, i parenti e gli amici dei genitori e dei parenti. Allora prese la seggiola e la portò in soffitta. Qui c’era molto silenzio. Gli sembrò a un certo punto di sentire dei passi leggeri, doveva essere il futuro che si stava avvicinando. Si voltò e vide un topolino. Per caso sei il futuro? Il topolino si mise a ridere.
– Io sono un topolino, non vedi que sono un topolino?
I genitori dovettero portargli da mangiare nella soffitta perché Paolino non voleva piú scendere se prima non aveva visto arrivare il futuro.
Dopo tanti anni Paolino è ancora lí che aspetta. Adesso è grande, non è piú un bambino, sono passati tanti anni e ha una barba molto folta e molto lunga. Non ha fatto niente di buono e niente di cattivo nella sua vita. L’ha consumata quasi tutta ad aspettare il futuro.
Luigi Malerba, “Storiette e Storiette tascabile”, Torino: Einaudi, 1994 – pp. 60
A Coordenadoria de Vestibulares e Concursos da PUCSP publicou nesta manhã, dia 14/11/12, a lista dos aprovados no exame de proficiência em línguas estrangeiras dos candidatos e alunos da Pós-Graduação (mestrado e doutorado).
Para ter acesso à lista, clique aqui. Obtenha também seu boletim de desempenho digitando o CPF no local indicado.
Parabéns aos meus queridos alunos pela aprovação!!!
Mônica Gonçalves
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri) – tratto da “Qua e là per l’Italia” – Alma Edizione, Firenze, 2008.
Non conviene amare una Cicognina – Alberto Moravia
Alcuni miliardi di anni fa, un certo Barba Gianni, vecchione oltremodo misantropo, viveva in una grotta che si apriva a metà di una parete rocciosa la quale, verso l’alto, pareva salire fino al cielo e, in basso, sprofondare in un abisso senza fine. Dalla grotta, sporgeva nel vuoto uno sperone rupestre; ogni notte, Barba Gianni ne spiccava il volo per andare a caccia di un topo o due da mettere in tavola il giorno dopo. Barba Gianni non aveva mai voluto sposarsi; diceva: “Eh, mica sono scemo; forse che vado a mettermi una estranea in casa?”. Le faccende gliele sbrigava un suo cameriere a nome Pipi Strello, bravo e affezionato, che, però, aveva la pessima abitudine di starsene tutto il tempo con la testa in giù, aggrappato al soffitto con le dita dei piedi. Questa abitudine, secondo Barba Gianni, influiva, e come avrebbe potuto essere altrimenti?, sulle idee di Pipi Strello. “Stando con la testa in giù,” osservava Barba Gianni, “alla fine non si possono pensare che pensieri con la testa in giù”.
L’osservazione trovò ben presto conferma. Uno di quei crepuscoli, Barba Gianni se ne stava sullo sperone roccioso preparandosi a spiccarne il volo per andare a caccia di topi, quando, laggiù, lontano lontano, nel limpido cielo vespertino, vide qualche cosa come una sciarpa bianca e ondeggiante che si avvicinava ora allungandosi e ora accorciandosi. Che roba era?
Barba Gianni scrutò la sciarpa e alla fine capì: era uno stormo enorme di Ci Cogne che, come sono solite ogni anno alla fine dell’autunno, migravano per svernare nel sud.
Barba Gianni non poteva soffrire le Ci Cogne, uccelli irrequieti che non stanno mai fermi e ora vivono in cima ad un campanile in Germania e ora te le ritrovi su un baobab in Africa, “forse pianto baracca e burattini e me ne scappo al lago Ciad?”. Così, anche quella sera, Barba Gianni, come tante altre volte, si ritirò in fondo alla sua grotta e lì rimase immobile, con gli occhi gialli spalancati nel buio, in attesa che lo stormo fosse passato.
Le Ci Cogne ci misero non so quanto a sfilare davanti alla grotta. Erano centinaia e facevano un gran chiasso perché sono uccelli chiacchieroni e, pur volando, non smettono un momento di parlare del più e del meno.
Barba Gianni vedeva quel fiume di penne bianche scorrere laggiù, fuori dalla grotta e, dalla grande antipatia, sbatteva le palpebre sugli occhi fosforescenti come se qualcuno l’avesse preso a schiaffi. Finalmente, passarono anche le ultime Ci Cogne ritardatarie e poi, grazie a Dio, più nulla.
Barba Gianni trasse un respiro di sollievo, aspettò ancora un poco, quindi, appena fu sicuro che lo stormo delle Ci Cogne era ormai lontano, uscì dalla grotta. Ma ecco, proprio nel momento in cui stava per spiccare il volo, ecco, qualche cosa gli cascò addosso con tanta violenza che per poco non lo travolse. Come si fu ricomposto alla meglio, vide che il bolide era una Ci Cogna piuttosto piccola, giovinetta, che appariva visibilmente turbata. Disse la Ci Cogna, dopo un momento, ancora tutta ansimante: “Dov’è, dove è andato?”.
“Ma chi?”.
“Il mio stormo, lo stormo delle Ci Cogne”.
“Eh, ormai è già un’ora che è passato”.
Avete mai visto una Ci Cogna piangere? Io no; ma me l’immagino benissimo. La piccola Ci Cogna scoppiò in lagrime e non la finiva più di singhiozzare. Tra un singhiozzo e l’altro, venne fuori la sua storia: volando di conserva con il babbo, la mamma e cinque tra fratelli e sorelle, Cognina (così si chiamava la giovinetta) aveva fatto una mossa falsa e si era storta un’ala. Così era rimasta indietro, ih ih ih, e se, in quel momento non avesse trovato quello sperone provvidenziale, ih ih ih, certo sarebbe cascata giù giù sulla terra, ih ih ih, per essere poi divorata, ih ih ih, da una delle tante belve, ih ih ih, per le quali la Ci Cogna è un cibo prelibato, ih ih ih.
Barba Gianni, di tutto questo discorso, capì soltanto una cosa: che Cognina non poteva proseguire nel volo e perciò doveva restare per qualche tempo nella grotta, mettendo, così, in pericolo la sua cara solitudine. E stava già per rispondere: “E io che cosa posso farci? Perché non vai a chiedere ospitalità a uno dei tanti tuoi parenti, per esempio tuo zio Mara Bu oppure tuo cugino Tan Talo? Loro hanno nidi grandi; io, lo vedi, ci ho soltanto questa grotticella che, per giunta, debbo condividere con Pipi Strello”; quando, dal fondo della grotta, gli giunse la voce, appunto, di Pipi Strello, che diceva: “Barba Gianni, non fare sciocchezze, questa è la grande occasione della tua vita e tu non devi lasciartela sfuggire”.
“Ma quale occasione?”.
“Di liberarsi una buona volta della solitudine e della misantropia, accogliendo nella tua grotta un essere nuovo, giovane, una presenza bianca, luminosa, solare”.
“Ma io sono nottambulo; alla mia età non si cambiano certe abitudini”.
“Vedrai Barba Gianni, che le cambierai”.
“Tu parli in questo modo perché te ne stai con la testa in giù”.
“Meglio la testa in giù che nessuna testa, Barba Gianni”.
Insomma, a farla breve, Cognina non soltanto rimase nella grotta, in attesa di guarire; ma, proprio come Pipi Strello aveva preveduto, Barba Gianni cambiò le proprie abitudini. Non volava più di notte, con le stelle e la luna; ma di giorno, nella piena luce del sole; non andava più a caccia di sudici topi neri e pelosi ma di freschi, argentei pesciolini. Persino la voce gli si era cambiata: da un blaterare rauco ad un modulato bisbigliare. A cosa si doveva questo cambiamento così radicale? Semplice: all’amore. Barba Gianni si era innamorato di Cognina; non la lasciava mai neppure un solo momento. Così che era ormai un fatto abituale vederli insieme, lungo i fiumi e in riva ai laghi, luoghi preferiti da Cognina, lei bianca e dinoccolata, elegantissima con le sue zampe alte e sottili e il suo lungo becco; lui, invece, scuro e tracagnotto, tondo come una palla, con il suo beccuccio ricurvo e i suoi enormi occhiali da notaio.
Ma Barba Gianni, pur essendo innamorato, aveva paura; nei momenti in cui Cognina non lo sentiva, diceva al fido Pipi Strello: “Mi sa che questa Cognina è una furba matricolata: le dai una mano, ti prende il braccio”. Pipi Strello, però, gli rispondeva: “Anche se le darai il braccio, sarà ancora poco”. Barba Gianni brontolava: “Eh, già, tu parli così perché te ne stai con la testa in giù e vedi tutto alla rovescia”. A questo punto Pipi Strello ribatteva: “Volesse il cielo che almeno una volta in vita tua vedessi le cose a testa in giù”.
Intanto Cognina non soltanto era guarita ma si era fatta grande e bella. Abitava pur sempre nella grotta di Barba Gianni; ma si assentava spesso, misteriosamente, così che Barba Gianni, ingelosito, si mise a pedinarla e scoprì ben presto che la sua ospite andava a far visita ad un certo Cico Gnino, individuo ben noto per le sue prodezze di inveterato dongiovanni. Barba Gianni arrischiò un rimprovero; non l’avesse mai fatto, ne ebbe questa risposta: “Vedo chi mi pare e piace e tu chiudi il becco”. Barba Gianni, mortificato, si confidò con Pipi Strello. Ma la risposta fu la solita: “Vedendo le cose come le vedo, a testa in giù, ti dico che sei fortunato. Cognina ti tradisce: ebbene, anche questo è meglio che nulla”.
Con quest’idea che qualsiasi cosa, perfino il tradimento, era meglio che nulla, Barba Gianni alla fine accettò anche di costruire il nido nel quale Cognina avrebbe allevato i figli suoi e di Cico Gnino. Così, il povero vecchio fu visto volare avanti e indietro portando nel becco manciate di fieno, pezzetti di carta, lanugini, rami e rametti, steli di canne, stracci e, insomma, ogni sorta di materiale per rendere più solido e più comodo il nido dei figli non suoi. Ma Pipi Strello, ostinato, continuava ad ammonire: “Non lamentarti. Così, almeno, vivi. Prima cos’eri? Un morto”.
Adesso il nido, enorme, stava sospeso in bilico nel vuoto, in cima al solito sperone di roccia. E quando ben cinque Ci Cognini sbucarono dalle uova e presero a fare un baccano del diavolo, coi becchi protesi in su, fuori del nido, esigendo con prepotenza di essere nutriti, chi fu che si fece in quattro per portare loro ogni specie di vermi, lumache e insetti di vario genere se non, appunto, il povero vecchione Barba Gianni? Ma Pipi Strello non si impietosiva: “Ecco, adesso hai una vera e propria famiglia. Cosa vuoi di più? Fortunati come te, ce ne sono pochi”.
Andò a finire che, da una fortuna all’altra, uno di quei giorni, Barba Gianni si sentì dire in maniera molto sbrigativa da Cognina: “Beh, carissimo Barba Gianni, è giunto il momento di separarci. Provo non so che prurito alle ali, non so che smania nelle gambe, non so che fremito nel petto: tutto mi dice che i miei figli ed io stiamo per migrare. E tu cosa vuoi fare? Vieni con noi oppure resti qui?”.
Barba Gianni trasecolò: “Come, tu vuoi andar via?”.
“Certo, si capisce, più niente mi trattiene qui”.
“Neppure un sentimento, non dico di amore, ma almeno di gratitudine?”.
“Il solo sentimento che provo è una gran voglia di volare via al più presto”.
“Cerca di dominarti”.
“Impossibile. E’ più forte di me”.
Barba Gianni, disperato, insistette: “Ma dove vai? Lo sai, almeno dove vai?”.
Cognina rispose risentita: “Noi altre Ci Cogne non sappiamo mai dove andiamo. Dobbiamo andare, ecco tutto”.
“Ma quelle di voi che tornano, te l’avranno pur detto dove erano state”.
Cognina disse un po’ vagamente: “Dicono che in un luogo lontanissimo c’è un lago grandissimo con una grandissima luce nel cielo. Nel lago ci sono tanti, tanti uccelli che svolazzano sull’acqua, pescano pesci grossi così, si spollinano, prendono il sole, sono felici”. “E io, secondo te, sarei felice anch’io, laggiù?”. “Tu sei felice, secondo me, soltanto al buio, di notte, quando vai a caccia di topi e poi torni alla grotta con un grosso topo e Pipi Strello te lo cucina e te lo mangi”.
Che fare? Pipi Strello, consultato, sentenziò: “Meglio un giorno da cicogna che cent’anni da barbagianni”; Cognina si dava già da fare per i preparativi della partenza; Barba Gianni allora si decise e annunziò che sarebbe venuto anche lui. Partirono all’alba. Dallo sperone, spiccò il volo, per prima, Cognina, poi i cinque figli, alla fine Barba Gianni. Pipi Strello, lui rimase nella grotta, ma promise che li avrebbe raggiunti appena avesse avuto loro notizie. Intanto gridò a Barba Gianni, pur sempre stando con la testa in giù: “Fai bene a partire: non si vive che una volta sola”.
Vola, vola, vola, Barba Gianni si accorse ben presto che non ce la faceva. Cognina aveva le ali lunghe, lui, invece, le aveva corte; aveva polmoni molto sviluppati, lui, invece, piccoli e stretti; ci vedeva benissimo, lui, invece, era accecato dal sole. Una mattina che sorvolavano un mare immenso che era tutto un barbaglio di luce, Barba Gianni avvistò un’isoletta e allora implorò Cognina: “Fermiamoci per un poco lì, su quello scoglio, così ci riposiamo”. Cognina rispose: “Fermati tu, noi proseguiamo”. “Ma io sono stanco”. “Tanto peggio per te”. Questa durezza di cuore di Cognina fece precipitare la decisione di Barba Gianni. Senza salutare nessuno, discese sull’isoletta, stette lì qualche ora solo solo a contemplare tristemente il mare, quindi riprese il volo ma questa volta in direzione della sua grotta.
Trovò tutto quanto come l’aveva lasciato. Pipi Strello, che stava tuttora con la testa in giù, gli gridò subito: “Rimpiangerai tutta la vita di non essere andato fino al lago”.
Barba Gianni non gli rispose, perlustrò la grotta, trovò una lunga penna bianca, probabilmente caduta dall’ala di Cognina. La prese nel becco e uscì sullo sperone. Ecco lì, il nido, intatto ed enorme, tutto ovattato dentro di lanugine e di fieno. Barba Gianni aprì il becco e la penna bianca cadde nell’abisso. Poi fu la volta del nido: alla spinta di Barba Gianni, oscillò, stette un momento in bilico sull’orlo dello sperone, quindi cadde giù volteggiando, e scomparve. Adesso sorgeva la luna; in quella luce argentea si scorgeva tutta l’immensa pianura nella quale Barba Gianni era solito andare a caccia. Barba Gianni disse: “Beh, vado a prendere un topo, per domani”. Pipi Strello gridò, testa in giù: “Come lo faremo?”. Barba Gianni rispose: “Al forno;” e volò via.
Storie della preistoria, Alberto Moravia, Bompiani, 1989
Foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da PUC-SP. As provas de proficiência em língua estrangeira serão realizadas entre os dias 05 e 09 de novembro de 2012.
A prova de italiano será no dia 06.11.2012 das 14:00 às 16:00. Os candidatos deverão comparecer até às 13:50 ao Campus Monte Alegre – Rua Ministro Godói, 969 – 2º andar – Perdizes.
As inscrições deverão ser feitas através do site www.concursos.pucsp.br no período de 01 a 30/10/2012.
Para informações e orientação mais detalhadas, leia o edital clicando aqui.
Logo: Site FDUSP
Começam na próxima sexta-feira, dia 15/06/2012, as inscrições para as provas de proficiência em idioma estrangeiro do processo seletivo ao programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP. A inscrição e o pagamento da taxa deverão ser efetuados até o dia 25/06/2012.
Como prevê o edital, as provas serão aplicadas pela FUVEST nos dias 14 e 15 de julho de 2012. A prova de italiano será realizada no domingo, dia 15 de julho, às 14h (horário de chegada 13:30h), com duração de duas horas e meia.
O exame será realizado no Prédio do Biênio da Escola Politécnica da USP (POLI), situado à Av. Prof. Almeida Prado, Travessa 2, nº 128, CEP 05508-010 – Cidade Universitária, Bairro Butantã – São Paulo.
Para informações e orientação mais detalhadas, leia o informe clicando aqui.
In bocca al lupo!
A Coordenadoria de Vestibulares e Concursos da PUCSP publicou nesta manhã, dia 25/05/12, a lista dos aprovados no exame de proficiência em línguas estrangeiras dos candidatos e alunos da Pós-Graduação (mestrado e doutorado).
Para ter acesso à lista, clique aqui. Obtenha também seu boletim de desempenho digitando o CPF no local indicado.
100% dos meus alunos foram aprovados. Hoje é dia de festa! Parabéns, meus queridos!!
Mônica Gonçalves
C’era una volta un’Acca.
Era una povera Acca da poco: valeva un’acca, e lo sapeva. Perciò non montava in superbia, restava al suo posto e sopportava con pazienza le beffe delle sue compagne. Esse le dicevano:
– E così, saresti anche tu una lettera dell’alfabeto? Con quella faccia?
– Lo sai o non lo sai che nessuno ti pronuncia?
Lo sapeva, lo sapeva. Ma sapeva anche che all’estero ci sono paesi, e lingue, in cui l’acca ci fa la sua figura.
“Voglio andare in Germania, – pensava l’Acca, quand’era- più triste del solito. – Mi hanno detto che lassù le Acca sono importantissime”.
Un giorno la fecero proprio arrabbiare. E lei, senza dire né uno né due, mise le sue poche robe in un fagotto e si mise in viaggio con l’autostop.
Apriti cielo! Quel che successe da un momento all’altro, a causa di quella fuga, non si può nemmeno descrivere.
Le chiese, rimaste senz’acca, crollarono come sotto i bombardamenti. I chioschi, diventati di colpo troppo leggeri, volarono per aria seminando giornali, birre, aranciate e granatine in ghiaccio un po’ dappertutto.
In compenso, dal cielo caddero giù i cherubini: levargli l’acca, era stato come levargli le ali.
Le chiavi non aprivano più, e chi era rimast6 fuori casa dovette rassegnarsi a dormire all’aperto.
Le chitarre perdettero tutte le corde e suonavano meno delle casseruole.
Non vi dico il Chianti, senz’acca, che sapore disgustoso. Del resto era impossibile berlo, perché i bicchieri, diventati ” biccieri”, schiattavano in mille pezzi.
Mio zio stava piantando un chiodo nel muro, quando le Acca sparirono: il ” ciodo ” si squagliò sotto il martello peggio che se fosse stato di burro.
La mattina dopo, dalle Alpi al Mar Jonio, non un solo gallo riuscf a fare chicchirichi’: facevano tutti ciccirici, e pareva che starnutissero. Si temette un’epidemia.
Cominciò una gran caccia all’uomo, anzi, scusate, all’Acca. I posti di frontiera furono avvertiti di raddoppiare la vigilanza. L’Acca fu scoperta nelle vicinanze del Brennero, mentre tentava di entrare clandestinamente in Austria, perché non aveva passaporto. Ma dovettero pregarla in ginocchio: Resti con noi, non ci faccia questo torto! Senza di lei, non riusciremmo a pronunciare bene nemmeno il nome di Dante Alighieri. Guardi, qui c’è una petizione degli abitanti di Chiavari, che le offrono una villa al mare. E questa è una lettera del capo-stazione di Chiusi-Chianciano, che senza di lei diventerebbe il capo-stazione di Ciusi-Cianciano: sarebbe una degradazione.
L’Acca era di buon cuore, ve l’ho già detto. È rimasta, con gran sollievo del verbo chiacchierare e del pronome chicchessia. Ma bisogna trattarla con rispetto, altrimenti ci pianterà in asso un’altra volta.
Per me che sono miope, sarebbe gravissimo: con gli “occiali” senz’acca non ci vedo da qui a lì.
Gianni Rodari, Il libro degli errori, Einaudi, 1964, p.34/35
Foto: Site FDUSP
Hoje, dia 17.04.2012, foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP para o ano de 2013.
Os exames de proficiência em idioma estrangeiro serão realizados nos dias 14 e 15 de julho e as inscrições deverão ser feitas no período de 15 a 25 de junho através do site da FUVEST.
Para orientação e informações mais detalhadas do calendário, clique aqui e leia o edital.
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Nella notte del 3 marzo 1991, tornato da una serata di plenilunio trascorsa passeggiando per i vicoli di Siena, Antonio Tabucchi, esploratore e scrittore, fece un sogno.
Sognò che si trovava disteso sul rossi mattoni di refrattario della Piazza del Campo; era notte e i raggi della luna illuminavano i palazzi rendendoli quasi di gesso. Guardò meglio e si accorge che in realtà gli edifici intorno a lui si stavano sgretolando e, sotto l’azione della lieve brezza dell’ultimo inverno, gli fioccavano attorno ricoprendo tutto di una candida coltre. Sentì solo un leggero fremito, appena un brivido di freddo sulla schiena, quando, leggero come una piuma, cominciò a sollevarsi da terra. Levitava come se dei leggerissimi e invisibili fili di seta lo trasportassero verso l’alto. Man mano che saliva, si sentiva sempre più incorporeo, quasi si stesse trasformando in fumo, o in quella materia impalpabile di cui sono fatti i sogni.
Giunto più o meno all’altezza della Torre del Mangia, volle guardare giù e, girandosi con un lieve gesto, quasi un astronauta nello spazio, potè ammirare il magnifico spettacolo dei tetti rossi di Siena che incorniciavano il candore della piazza sotto di lui. Era come una nuvola bianca, un lenzuolo bianco immenso sul quale tutti gli scrittori potevano scrivere.
Le dita gli formicolavano. Le guardò e vide che avevano le ultime falangi quasi annerite. Il freddo, pensò. Ma osservandole meglio percepì che le mani si stavano allungando e tutte le sue dieci dita stavano assumendo una forma rigida, cilindrica con le punte sempre più nere… Si sarebbe potuto dire che stavano diventando… erano già diventate… delle matite. Belle matite perfettamente temperate che lui, anche se con una certa difficoltà, poteva muovere e controllare.
Distese l’indice della mano destra in direzione della piazza e, con un rapido ed elegante gesto della mano, tracciò una “s”. Sì, poteva scrivere sulla piazza e senza dover toccare il suolo con le dita; bastava solo il gesto. Rimase meravigliato, ma, provando di nuovo, il suo dito-matita non scrisse più. Lo scrutò attentamente e notò che si era spuntato, o meglio che vi stava spuntando qualcosa che non riusciva a definire, gli sembrava un verme, di quelli che lasciano una piccola parte del corpo appoggiata sul terreno e ruotano vorticosamente in alto l’altra estremità, come se cercassero un appiglio per sollevarsi dal suolo. Ma, portando il dito-matita più vicino ai suoi occhi, si rese conto che si trattava di una piantina che cresceva rapidissima, e, assieme a lei, ne crescevano di uguali su tutte le altre nove dita-matite. Crescevano tutte ad altissima velocità, come in quei filmati le cui riprese sono accelerate di proposito.
Alla fine, sulla sommità di ciascuna piantina, sbocciarono due fiori bianchi. Ognuno di questi emanava un profumo intensissimo e al tempo stesso originale. Tabucchi raccolse tutte le dita fiorite sotto il suo naso e aspirò profondamente. Le fragranze erano così forti che la sua mente si inebriò e cominciò ad avere visioni.
Guardando nel primo fiore vide un uomo che correva in un corridoio interminabile, cercando di fuggire e di ritrovare la sua memoria.
Nel secondo vide una farfalla che cantava odi dolcissime.
Nel terzo c’era un mago che camminava accanto ad un asino tutto d’oro.
Stava per guardare nel quarto fiore, ma sentì una calda carezza sui suoi capelli, come se il primo raggio di sole soavemente si insinuasse nella sua mente.
Aprì gli occhi sul mondo reale proprio mentre sua figlia Teresa, tenendogli una mano leggermente posata sulla testa, gli mostrava un bel quaderno nuovo che aveva appena comprato per lui.
M. Lacidogna – São Paulo, 5 marzo 1997.
Sogno di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore e uomo iracondo
La notte del primo gennaio del 1599, mentre si trovava nel letto di una prostituta, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore e uomo iracondo, sognò che Dio lo visitava. Dio lo visitava attraverso il Cristo, e puntava il dito su di lui. Michelangelo era in una taverna, e stava giocando di denaro. I suoi compagni erano dei furfanti, e qualcuno era ubriaco. E lui, lui non era Michelangelo Merisi, il pittore celebre, ma un avventore qualsiasi, un mallandrino. Quando Dio lo visitò stava bestemmiando il nome di Cristo, e rideva. Tu, disse senza dire il dito del Cristo. Io? Chiese con stupore Michelangelo Merisi, io non sono un santo per vocazione, sono solo un pescatore, non posso essere scelto.
Ma il volto del Cristo era inflessibile, senza scampo. E la sua mano tesa non lasciava spazio a nessun dubbio.
Michelangelo Merisi abbassò la testa e guardò il denaro sul tavolo. Ho stuprato, disse, ho ucciso, sono un uomo con le mani lorde de sangue.
Il garzone dell’osteria arrivò portando fagioli e vino. Michelangelo Merisi si mise a mangiare e a bere. Tutti erano immobili, vicino a lui, solo lui muoveva le mani e la bocca come un fantasma. Anche il Cristo era immobile e tendeva la sua mano immobile col dito puntato. Michelangelo Merisi si alzò e lo seguì. Sbucarono in un vicolo sudicio, e Michelangelo Merisi si mise a orinare in un canto tutto il vino che aveva bevuto quella sera.
Dio, perché mi cerchi? Chiese Michelangelo Merisi al Cristo. Il figlio dell’uomo lo guardò senza rispondere. Passeggiarono lungo il vicolo e sbucarono su una piazza. La piazza era deserta.
Sono triste, disse Michelangelo Merisi. Il Cristo lo guardò e non rispose. Si sedette su una panchina di pietra e si tolse i sandali. Si massaggiò i piedi e disse: sono stanco, sono venuto a piedi dalla Palestina per cercarti.
Michelangelo Merisi stava vomitando appoggiato al muro di un cantone. Ma io sono un peccatore, gridò, non devi cercarmi.
Il Cristo si avviccinò e gli toccò un braccio. Io ti ho fatto pittore, disse, e da te voglio un dipinto, dopo puoi seguire la strada del tuo destino.
Michelangelo Merisi si pulì la bocca e chiese: quale dipinto?
La visita che ti ho fatto stasera nella taverna, solo che tu sarai Matteo.
D’accordo, disse Michelangelo Merisi, lo farò. E si girò nel letto. E in quel momento la prostituta lo abbracciò russando.
(Sogni dei sogni – Antonio Tabucchi – Sellerio Ed. pag. 37/38)
L’uomo che usciva solo di notte
Ai tempi di Babì Babò viveva un povero pescatore con tre figlie da marito. C’era un giovane che ne voleva in moglie una, ma era uno che usciva solo di notte, e la gente non se ne fidava. Così la maggiore non lo volle per marito e la seconda nemmeno; invece la terza accettò. Le nozze si fecero di notte, e appena furono soli, lo sposo le disse: – Devo dirti un segreto: sono stato stregato, e la mia condanna è d’essere tartaruga durante il giorno, e tornare uomo solo di notte; da questa condanna posso liberarmi solo in un modo; devo lasciare mia moglie subito dopo le nozze e fare il giro del mondo, di notte come un uomo e di giorno come tartaruga; se tornato dal giro del mondo troverò mia moglie che m’è rimasta fedele e ha sopportato ogni disavventura per amor mio, ridiventerò uomo per sempre.
– Sono pronta, – disse la sposa.
Lo sposo le infilò al dito un anello con un diamante: – In tutte le occasioni , questo anello ti servirà, se saprai usarlo bene.
Era venuto giorno, e lo sposo si trasformò in tartaruga; e con il suo lento passo, partì per il giro del mondo. la sposa andò a girare per la città per trovare un lavoro. Incontrò un bambino che piangeva e disse alla madre: – Datemelo in braccio a me, che lo farò tacere.
– Brava, sareste, a farlo tacere, – disse la madre. – E’ tutto il giorno che piange.
– Per la virtù del diamante, – disse la sposa, – che il bambino rida, balli e salti! – E il bambino si mise a ridere, ballare e saltare.
Poi entrò in una bottega di panettiere e disse alla padrona: – Prendetemi a lavorare con voi, e non ve ne pentirete. – La presero a lavorare, e lei si mise a fare il pane e disse: – Per la virtù del diamante, che tutti vengano a comprare il pane in questa bottega, finché non ci lavorerò io! – Cominciò un andirivieni nella bottega che non finiva più. Vennero anche tre giovanotti, che, vista la bella sposa s’innamorarono di lei. – Se mi lasci passare una notte nella tua stanza, – le disse uno dei tre, – ti do mille franchi.
– E io, – disse l’altro , – te ne do duemila.
– E io tre, – disse il terzo.
Lei si fece dare i tremila franchi dal terzo e la sera lo fece entrare di nascosto in bottega.
– Aspetta un momento, – gli disse, – che metto il lievito nella farina, anzi fammi questo piacere: mettiti tu un momento a impastare.
L’uomo si mise a impastare, e impasta, impasta, impasta, per la virtù del diamante non poté toglier le braccia dalla pasta e continuò a impastare fino a giorno.
– Be’, finalmente hai finito! – gli disse lei. – Ce ne hai messo di tempo!
E lo cacciò via.
Poi disse di sì a quello dei duemila franchi , lo fece entrare appena buio, e gli disse di soffiare un momento sul fuoco, se no si spegneva. Lui soffia sul fuoco, soffia sul fuoco, per la virtù del diamante continuò a soffiare sul fuoco, gonfio in faccia come un otre, fino alla mattina dopo.
– Che modo di fare! – gli disse lei mattina, – vieni a trovare me e passi tutta la notte a soffiar nel fuoco! – E lo cacciò via.
La sera dopo, fece entrare quello dei mille franchi. – Io devo mettere il lievito, – gli disse; – intanto tu va’ chiudere la porta.
L’uomo chiude la porta, e per virtù del diamante la porta si riapre. Richiudi e riapri, passò la notte e venne il mattino.
L’hai chiusa, questa porta, finalmente? Be’, adesso riaprila e vattene.
I tre uomini carichi di rabbia, andarono a denunciarla. A quel tempo oltre gli sbirri c’erano anche le donne-sbirro che servivano per quando c’era da arrestare una donna. Così quattro donne-sbirro andarono per arrestare la sposa.
– Per virtù del diamante, – disse la sposa, – che queste donne si piglino a schiaffi fino a domattina.
E le quattro donne-sbirro presero a tirarsi manrovesci l’un l’altra da gonfiarsi la faccia di due dita ogni volta. Vedendo che non tornavano le quattro donne-sbirro con l’arrestata, furono mandati quattro sbirri a cercarle. La sposa li vide arrivare e dice: – Per la virtù del diamante, che questi uomini si mettano a saltare a cavallina, – e sull’istante, uno degli sbirri si abbassò con la schiena, un altro gli puntò le mani sulla schiena e saltò, e gli altri due dietro, e così presero a saltare alla cavallina uno dopo l’altro.
In quel momento, col suo passo trotterellante, ecco che arriva una tartaruga. Era il marito che tornava dal giro del mondo, e ritrovando la moglie, tac!, ridiventò un bel giovane e tale rimase accanto a lei fino a tarda età.
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Per passare da qui è necessario venirci apposta, come spesso è necessario per i luoghi un po’ speciali. Per arrivare al punto: siamo in Brasile, supponiamo che siate arrivati a Rio de Janeiro. Che è, come giustamente la chiamano, la “Cidade maravilhosa”. Ma viste le sue meraviglie (al positivo e al negativo), le giornate sulle spiagge di Copacabana o di Leblon sono identiche a quelle di ogni parte del mondo dove esistono spiagge del genere, solo un po’ più pittoresche e un po’ meno “tessili”, dati gli esigui centimetri delle “tangas” delle ragazze: ma il sole è lo stesso e l’acqua del mare pure. Dunque possiamo andare a Congonhas do Campo.
La direzione è Belo Horizonte, capitale dello Stato di Minas Gerais, a circa quattrocento chilometri, servita da frequenti voli. Città che varrebbe una sosta, dirà la vostra guida, soprattutto per il monumentale complesso architettonico della Pampulha realizzato da Oscar Niemeyer e Burle Marx. Sarà per un’altra volta. Ci scusiamo con l’architettura contemporanea: abbiamo un appuntamento con quella antica, e la macchina affittata all’aeroporto ci servirà anche da macchina del tempo per retrocedere fino al Settecento, al magnifico barocco portoghese di Congonhas do Campo.
A Congonhas converrebbe arrivare al calare del sole per approfittare della luce da miraggio del tramonto, aggirare senza guardarli gli edifici costruiti negli anni Cinquanta, quando il governo brasiliano decise di risfruttare le miniere (quel poco che restava dei grandi giacimenti auriferi che fecero la fortuna di Minas Gerais coloniale), e dirigersi verso la basilica del Bom Jesus de Matosinhos, rimasta intatta al limitare dell’abitato, in un enorme spiazzo in pendio dove palmizi dall’esile ciuffo sul tronco altissimo accompagnano le sei cappelle della Via Crucis che conducono alla cattedrale. Sulla spettacolare scalinata disegnata a rombo si ergono in pose di una leggiadria sorprendente, data la mole gigantesca, le statue di pietra dei dodici profeti. Le scolpì Antonio Francisco Lisboa detto l’Aleijadinho, figlio illegittimo di mastro Manuel Franscisco Lisboa e della sua schiava Isabel. Questo prodigioso scultore, forse il più grande dell’epoca barocca portoghese, fu colpito dalla lebbra in giovane età (Aleijadinho significa “storpio”, lo Storpietto) e si racconta che ormai incapace di camminare si facesse condurre in portantina fino alla cattedrale per scolpire le sue statue con degli scalpelli legati ai moncherini delle braccia rosicate dalla malattia. Le enormi statue sono in “pedra-sabão” (alla lettera “pietra-sapone”), una pietra dolce e friabile che i venti del “sertão” hanno intaccato nei volti come la malattia che divorò chi li scolpì.
Intanto è calata la sera e le cappelle della Via Crucis sono chiuse. Ma il guardiano, che abita in una casetta vicina, le aprirà gentilmente per voi se saprete essere convincenti, perché – è una cosa da specificare – vi piacerebbe proprio vederle illuminate dalla luce artificiale. Guardando nella luce irreale dei faretti i gruppi delle sculture lignee a grandezza naturale dell’Aleijadinho (l’Ultima cea, l’Orto degli ulivi, l’Arresto di Cristo, la Flagellazione, il Calvario, la Crocifissione), che nonostante la patina del tempo mantengono ancora i colori accesi che piacevano ai barocchi, forse penserete che questo era un luogo che meritava una sosta. Fra una cappella e l’altra, nel tappeto erboso, cantano i grilli. Sono dei piccoli grilli verdi quasi diafani; tenere sul palmo uno di quegli orchestrali che sui loro organetti sembrano suonare un requiem alla passione del Cristo scolpita da un artista infelice, mentre intorno a voi centinaia di altri grilli lo accompagnano, vi darà l’impressione di dirigere un’orchestra lunare, dove tutto è assurdo, musica e figuranti.
Poco lontano c’è una locanda. È rustica, con letti antichi e suppellettili di cuoio, come si addice alla vita dei butteri di queste parti. Il materasso di crine da principio vi sembrerà scomodo, ma poi vi dormirete magnificamente. Magari pensando che troppo grande e sorprendente è il Brasile per farvi solo questa sosta.
Viaggi e altri viaggi – A.Tabucchi, Feltrinelli, 2010
Kataklò é um nome que deriva do grego antigo e quer dizer “eu danço dobrando-me e contorcendo-me”. Esta é uma companhia independente de dança, fundada em Milão por Giulia Staccioli em 1995.
O grupo Kataklò virá a São Paulo com o novo espetáculo “Light”, a apresentação acontecerá no Teatro Alfa, no dia 23 de maio às 21h. Ingressos a R$ 60,00. Para mais informações sobre o grupo,clique aqui. Buon divertimento!
Foto: Internet
Il professor Grammaticus viaggiando in treno, ascoltava la conversazione dei suoi compagni di scompartimento. Erano operai meridionali, emigrati all’estero in cerca di lavoro: erano tornati in Italia per le elezioni, poi avevano ripreso la strada del loro esilio.
– Io ho andato in Germania nel 1958, – diceva uno di loro.
– Io ho andato prima in Belgio, nelle miniere di carbone. Ma era una vita troppo dura.
Per poco il professor Grammaticus li stette ad ascoltare in silenzio. A guardarlo bene, però, pareva una pentola in ebollizione. Finalmente il coperchio saltò, e il professor Grammaticus esclamò, guardando severamente i suoi compagni:
– Ho andato! Ho andato! Ecco di nuovo il benedetto vizio di tanti italiani del Sud di usare il verbo avere al posto del verbo essere. Non vi hanno insegnato a scuola che si dice: “sono andato”?
Gli emigranti tacquero, pieni di rispetto per quel signore tanto perbene, con i capelli bianchi che gli uscivano di sotto il cappello nero.
– Il verbo andare, – continuò il professor Grammaticus, – è un verbo intransitivo, e come tale vuole l’ausiliare essere.
Gli emigranti sospirarono. Poi uno di loro tossì per farsi coraggio e disse:
– Sarà come lei dice, signore. Lei deve aver studiato molto. Io ho fatto la seconda elementare, ma già allora dovevo guardare più alle pecore che ai libri. Il verbo andare sarà anche quella cosa che dice lei.
– Un verbo intransitivo.
– Ecco, sarà un verbo intransitivo, una cosa importantissima, non discuto. Ma a me sembra un verbo triste, molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d’altri… Lasciare la famiglia, i bambini.
Il professor Grammaticus cominciò a balbettare.
– Certo… Veramente… Insomma, però… Comunque si dice sono andato, non ho andato. Ci vuole il verbo “essere”: io sono, tu sei, egli è…
– Eh, – disse l’emigrante, sorridendo con gentilezza, – io sono, noi siamo!… Lo sa dove siamo noi, con tutto il verbo essere e con tutto il cuore? Siamo sempre al paese, anche se abbiamo andato in Germania e in Francia. siamo sempre là, è là che vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare, e belle case per abitare.
E guardava il professor Grammaticus con i suoi occhi buoni e puliti. E il professor Grammaticus aveva una gran voglia di darsi dei pugni in testa. E intanto borbottava tra sé: _ Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli errori nei verbi… Ma gli errori più grossi sono nelle cose!
(Il libro degli errori – G. Rodari)
Nave dei folli – Jherominus Bosch
Marione aveva deciso che così non poteva più andare avanti e che bisognava mettere in ordine il mondo. Si guardava attorno e doveva chiudere gli occhi perché non sopportava che tutte le cose fossero cosí confuse e mescolate l’una con l’altra. Una mattina comprò due grossi quaderni e incominciò a separare i numeri pari dai numeri dispari. Segnò i primi su un quaderno e i secondi sull’altro e quando arrivò a mille milioni si fermò per dedicarsi a separare le cose quadrate da quelle tonde.
Durante la notte sognò si spostare il Colosseo, Castel Sant’Angelo e il Patheon insieme alle cupole delle chiese di Roma, la Colonna Antonina e la Colonna Traiana, la fontana dell’Esedra e la piazza con lo stesso nome, il Palazzetto dello Sport e piazza del Popolo, per separarli da tutti i palazzi quadrati e rettangolari della capitale.
La mattina dopo andò al lavoro come al solito. Marione faceva il commesso in un supermercado e lavorò fino all’una a mettere un po’ d’ordine, come diceva lui. Cosí mise tutti i recipienti quadrati da una parte e quelli tondi dall’altra. Le scatole di biscotti andarono a finire su uno scaffale insieme a quelle dei detersivi e le scatole di conserve insieme agli insetticidi. Il padrone del supermercato si arrabbiò moltissimo e minacciò di licenziarlo. Cosí Marione dovette lavorare anche la sera dopo l’orario di chiusura per rimettere le cose in disordine como stavano prima.
Marione cercava di spiegare agli amici che voleva mettere in ordine il mondo, ma nessuno voleva capirlo e sopratutto nessuno lo aiutava. Siccome non era tipo da perdersi l’animo, decise che avrebbe fatto tutto da solo. Così un bel giorno incominciò a separare il bianco dal nero. Ma anche questa volta si trovò in un mare di difficoltà. Come avvrebbe potuto separare la schiuma bianca delle onde marine dalle rocce nere della costa? Marione camminava in una strada affollata con la testa tutta piena di questo pensiero, quando vide una signora che indossava una camicetta bianca e portava al braccio una borsetta nera. Marione prese la rincorsa e strappò la borsetta dal braccio di quella signora. Fini al commissariato e dovette fare una bella fatica a spiegare che non era uno scippatore.
Dopo questa brutta esperienza Marione si rimise al lavoro di tavolino. Prese un vocabolario e un paio di forbici e incomincio a separare le parole piane da quelle sdrucciole, quelle tronche da quelle bisdrucciole, poi i sostantivi dagli aggettivi, ei verbi dagli avverbi, le vocali dalle consonanti e infine, per fare il lavoro completo, decise di mettere ogni lettera dell’alfabeto insieme alle sue compagne, tutte le “a” insieme alle “a” e tutte le “z” insieme alle “z”. Naturalmente le maiuscole da una parte e le minuscole dall’altra. Lavorò con le forbici per molte notti di seguito finché ebbe riempito tanti sacchetti quante sono le lettere dell’alfabeto.
Le notti di Marione si popolarono di sogni fantastici. Sognava di separare l’ossigeno dall’idrogeno, la sabbia dal cemento, il ferro dal legno, le cicale dalle formiche, l’acqua dalla terra, il calcio dai maccheroni, il caldo dal freddo, la luna dal chiaro di luna e tante altre cose.
Una mattina, dopo una notte agitata, Marione si alzò deciso a separare gli uomini dalle donne. Andava per la strada e quando vedeva un uomo insieme a una donna si metteva in mezzo e cercava i separarli. Ma nessuno voleva saperne di accettare il nuovo ordine di Marione e qualcuno addirittura lo prese a schiaffi.
Marione era sempre più depresso a vedere tutto il disordine che c’era in giro per il mondo. Quando la moglie gli disse che se ne sarebbe andata di casa se insisteva a voler separare gli uomini dalle donne, Marione mise il cuore in pace e si convinse che un po’ di disordine alla fine si può anche sopportare.
Storiette Tascabili – Eunaudi Editore, 1994
Artemio entrò in una gelateria e chiese un gelato di crema e nocciola. La gelataia, una donna alta bella e severa, gli mise in mano un cono di fragola e limone. Artemio guardò la donna con meraviglia, ma non ebbe il coraggio di protestare.
Il giorno dopo si presentò di nuovo nella gelateria e chiese un gelato di fragola e limone. La gelataia alta bella e severa gli porse un gelato di pistacchio e cioccolato. Artemio la guardò negli occhi senza dire niente e si allontanò con il gelato di pistacchio e cioccolato. Si chiedeva se la gelataia volesse indispettirlo, oppure se questo comportamento strano fosse una provocazione femminile. La gelataia aveva una bella faccia abbronzata, belli occhi e belle orecchie. Artemio se la vedeva davanti di giorno e di notte e pensò che forse forse si stava innamorando.
Per una settimana Artemio non entrò nella gelateria, passeggiava lí davanti per delle ore, ma dopo otto giorni non resistette più e decise che questa volta le avrebbe detto qualcosa, per esempio: “Lei mi è molto simpatica”. Così, tanto per attaccare discorso. Entrò dunque nella gelateria e chiese un gelato di pistacchio e cioccolato. La bella gelataia gli mise in mano un cono di caffè e vaniglia. Artemio aprí la bocca per dire la frase che aveva preparato, ma dalla sua bocca uscirono delle parole diverse. Disse:
– Lei dovrebbe stare piú attenta-. Poi uscí dalla gelateria e mangiò il gelato con un solo morso.
Il giorno dopo Artemio si preparò un’altra frase: “Mi scuso se ieri sono stato sgarbato”. Entrò nella gelateria e chiese un gelato di caffè e vaniglia. La bella gelataia questa volta gli diede un gelato di ananas e banana. Artemio diventò tutto rosso in viso e disse:
– Lei mi sta prendendo in giro-. Poi uscì e mangiò con un solo morso anche il gelato di ananas e banana.
Artemio era proprio innamorato della gelataia e adesso si picchiava i pugni sulla testa perché temeva di averla offesa. Decise che sarebbe ritornato nella gelateria per rimediare. Questa volta le avrebbe detto chiaro chiaro: “Io sono innamorato di lei”.
Entrò dunque nella gelateria e chiese un gelato di ananas e banana. La gelataia gli diede un gelato di mandorla e lampone. Artemio aprì la bocca per dichiararle il suo amore, ma ancora una volta gli uscirono parole del tutto diverse:
– Lei non sa fare il suo mestiere.
La gelataia non batté ciglio e passò a servire altri clienti. Artemio uscì dalla gelateria disperato. Da quel giorno smise di mangiare gelati e rinunciò a sposare la bella gelataia come in cuor suo aveva progettato.
(Luigi Malerba, Storiette tascabili, Einaudi, Torino, 1994)
Foto: Internet
A Feltrinelli Editore acaba de lançar “Viaggi e altri viaggi“, o novo livro de Antonio Tabucchi. O autor diz: “Sou um viajante que nunca fez viagens para poder relatar, o que sempre me pareceu tolo. Seria como se alguém quisesse se apaixonar, para escrever um livro sobre o amor”. “Viaggi e altri viaggi” fala de metas mais ou menos conhecidas – da Lisboa de Fernando Pessoa à Austrália de Hanging Rock – como um guia para dentro de nós mesmos.
Assista à entrevista com Antonio Tabucchi no programa “Che tempo che fa“.
Foto: Internet
O novo romance de Umberto Eco acaba de chegar às livrarias italianas, o título em italiano é “Il cimitero di Praga“. Assista à entrevista de apresentação do livro com o apresentador Fabio Fazio no programa “Che tempo che fa“. No Brasil os direitos foram comprados pela Editora Record e a obra será lançada em 2011.
Foto: site B.Severgnini
Beppe Severgnini é um escritor italiano que, para quem ainda não conhece, merece toda atenção. Ele é autor de vários bestsellers publicados pela Rizzoli. Atualmente, escreve para o “Corriere della Sera”, onde tem uma seção que se chama Italians, muito interessante! Ele descreve e fala dos italianos com maestria; faz o leitor que, como eu, se identifica com essas características, por ser de origem italiana, dar gargalhadas com suas histórias. Li seu livro “”La Testa degli Italiani” e recomendo.
Buona lettura e buon divertimento!
Nesta nova seleção de livros, você vai encontrar títulos recentemente publicados e alguns lançados no ano passado, que achei interessante apresentar. Clicando sobre o título você poderá assistir à apresentação do livro feita pelo próprio autor. Infelizmente, não são todos os títulos que possuem entrevistas disponíveis.
L’ALTRA PARTE DEL MONDO – RITA LEVI-MONTALCINI
Nel 2000, tutti i Paesi del mondo, riuniti nell’Assemblea generale dell’Onu, hanno sottoscritto un patto fissando otto “obiettivi di sviluppo del Millennio”, da raggiungere entro il 2015: sradicare la povertà estrema, garantire l’istruzione primaria, promuovere la parità dei sessi, ridurre la mortalità infantile e migliorare la salute materna, debellare l’Aids e le altre malattie, sviluppare un parternariato mondiale. In tutti è fondamentale il ruolo della donna. Rita Levi-Montalcini, che si è sempre impegnata per aprire nuovi orizzonti alle donne e ai giovani, descrive in queste pagine un percorso organico per realizzare le potenzialità dell’altra parte del mondo, la carta vincente del futuro, affrontando il problema della disuguaglianza di genere spesso determinata da ragioni che possono essere culturali e religiose. È una prospettiva affascinante che, partendo dagli studi scientifici sulla plasticità neuronale e sulla peculiarità tipicamente femminile di essere duttile, pone finalmente la donna al vertice della piramide della realizzazione umana. Perché “il futuro del Pianeta” scrive Rita Levi-Montalcini “dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership. È alle donne, infatti, che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace”.
BIANCA COME IL LATTE ROSSA COME IL SANGUE – ALESSANDRO D’AVENIA
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori “una specie protetta che speri si estingua definitivamente”. Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c’è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l’assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell’amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l’ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
LA MALAPIANTA – NICOLA GRATTERI
“High tech e lupara.” Potrebbe essere il titolo di un’improbabile parodia cinematografica. Invece è la sconcertante ma fedele fotografia che Nicola Gratteri ci dà della ‘ndrangheta. In una veloce e appassionante conversazione con Antonio Nicaso, che sullo stesso argomento ha firmato con lui “Fratelli di sangue”, Gratteri ritorna ad approfondire un fenomeno criminale di portata internazionale che, dopo lunghi e colpevoli ritardi, inizia finalmente a essere percepito nella sua vera dimensione. A rivelare la forza dell’organizzazione criminale calabrese bastano poche cifre: il suo fatturato annuo è di 44 miliardi di euro, il 2,9% del Prodotto interno lordo. Il “core business” è rappresentato dal traffico di droga (la ‘ndrangheta controlla quasi tutta la cocaina che circola in Europa): un ricavo di 27.240 milioni di euro all’anno, il 55% in più rispetto al ricavo annuo della Finmeccanica, il gigante dell’industria italiana. A questa spettacolare espansione fa da contraltare il degrado sociale e ambientale della Calabria, prigioniera di una criminalità che la opprime, ne sfrutta famelicamente ogni risorsa e poi l’abbandona impietosamente al suo destino. La crescita e la fortuna di questa malapianta viene raccontata attraverso temi ed eventi cruciali: dalle lontane origini alla stagione dei sequestri di persona, all’espansione sul territorio italiano e all’estero; dalle collusioni con la politica alla conquista della leadership nel traffico di droga, alle inquietanti vicende dei rifiuti tossici.
SOTTO CIELI NONCURANTI – BENEDETTA CIBRARIO
Matilde ha dodici anni. Non sopporta i guanti spaiati e compie piccoli, bizzarri rituali per addomesticare la realtà, per darle un ordine. È un dicembre torinese, pieno di neve e di ombre. Pochi giorni prima di Natale, il padre di Matilde, il magistrato Giovanni Corrias, è chiamato a indagare sul caso di un bambino morto in circostanze misteriose. Mentre avvia i primi accertamenti e formula le prime ipotesi sua moglie viene investita da un’auto, ed è come se la sorte disegnasse una sua geometrica contemporaneità. Al colpo durissimo il magistrato risponde facendo leva sul senso del dovere e della professione, aggrappandosi alle indagini in corso. Violaine, una giovane poliziotta laureata in psicologia, lo aiuta a ricostruire la sequenza dei fatti. Matilde, intanto, osserva gli adulti e il loro dibattersi alle prese con la fragilità dell’esistenza. Con ostinata tenerezza si domanda in che maniera curare il dolore del padre e delle sorelle, nella convinzione che spetti a lei tentare di aggiustare quello che si è improvvisamente rotto, e alla geometria oscura della morte se ne sovrappone un’altra, luminosa e impalpabile.
RAGAZZE DEL NORDEST – ROMOLO BUGARO, MARCO FRANGOSO
(Libro del giorno del 26.02.2010 – RaiRV Fahrenheit Podcast)
A nove donne viene data voce per raccontare la loro vita, i loro amori, le speranze, le delusioni, i progetti realizzati o abbandonati. Le loro storie compongono un ritratto collettivo di grande forza ed impatto, nel quale possiamo riconoscere la vera sostanza di felicità e smarrimento, coraggio e senso di colpa; e possiamo riconoscere, anche, il paesaggio e il respiro di un Nordest in tumultuosa trasformazione, dove l’aspetto delle città, delle campagne e della vita stessa muta più velocemente della capacità delle persone di metabolizzare il nuovo orizzonte. I temi trattati nel libro sono molti: dalla drammatica esperienza dell’aborto alla liberazione dalla violenza, dall’anoressia al felice lavoro di scoperta e costruzione della propria identità. Quasi un reality letterario, dove protagonista non è però la superficie, bensì il paesaggio interiore, la sensibilità stessa, e dove il confine tra letteratura e vita vissuta sfuma fino a risultare irrintracciabile.
Foto: La Repubblica
Hoje, dia 12 de fevereiro, um momento raro em Roma: neve!
A cidade eterna está linda, você não acha?
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Meus alunos sempre pedem indicação de livros. Alguns nunca leram em italiano, outros estão acostumados aos clássicos. Fiz uma seleção dos títulos publicados recentemente pelas Editoras Mondadori e Feltrinelli, que estão entre os dez mais vendidos na Itália. Além das informações, você terá a oportunidade de ver a apresentação do livro pelo próprio autor, assista ao vídeo clicando sobre o título. Buona lettura!
IL TEMPO CHE VORREI – FABIO VOLO
Ci sono un padre e un figlio su un treno, non si sa per dove né perché. Il figlio ha l’età dell’autore e questa non è l’unica somiglianza. In treno, si sa, è facile perdersi nei pensieri. E allora il figlio pensa e ricorda. Un’infanzia fatta di fantasie assurde, le stesse che passano per la testa a quasi tutti i bambini. Un amore finito male. L’amicizia, la malattia, il lavoro, il riscatto sociale. Ma il figlio pensa soprattutto al padre.
IL PESO DELLA FARFALLA – ERRI DE LUCA
II re dei camosci è un animale ormai stanco. Solitario e orgoglioso, da anni ha imposto al branco la sua supremazia. Forse è giunto il tempo che le sue corna si arrendano a quelle di un figlio più deciso. E novembre, tempo di duelli: è il tempo delle femmine. Dalla valle sale l’odore dell’uomo, dell’assassino di sua madre. Anche l’uomo, quell’uomo, era in là negli anni, e gran parte della sua vita era passata a cacciare di frodo le bestie in montagna. E anche quell’uomo porta, impropriamente, il nome di “re dei camosci” – per quanti ne aveva uccisi. Ha una Trecento magnum e una pallottola da undici grammi: non lasciava mai la bestia ferita, l’abbatteva con un solo colpo. Erri De Luca spia l’imminenza dello scontro, di un duello che sembra contenere tutti i duelli. Lo fa entrando in due solitudini diverse: quella del grande camoscio fermo sotto l’immensa e protettiva volta del cielo e quella del cacciatore, del ladro di bestiame, che non ha mai avuto una vera storia da raccontare per rapire l’attenzione delle donne, per vincere la sua battaglia con gli altri uomini. “In ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove,” dice De Luca. E qui si racconta, per l’appunto, di questi due animali che si fronteggiano da una distanza sempre meno sensibile, fino alla pietà di un abbraccio mortale.
PANE E TEMPESTA – STEFANO BENNI
Quali sono le ventisette azioni dell’uomo civile? Lo scoprirete a Montelfo, il paese più magico e fantastico del mondo. In un romanzo di sfrenata comicità. Stefano Benni monta un grande circo di creature indimenticabili: il Nonno Stregone, Ispido Manidoro, Trincone Carogna, Sofronia e Rasputin, Archimede detto Archivio, Frida Fon, lo gnomo Kinotto, il beato Inclinato, Simona Bellosguardo, il gargaleone e il cinfalepro, Fen il Fenomeno, Piombino, Raffaele Raffica, Alice, don Pinpon e don Mela, Zito Zeppa, la Jole, Gino Saltasù, il sindaco Velluti, Ottavio Talpa, Bubba Bonazzi, Bum Bum Fattanza, Nestorino e Gandolino, Sibilio Settecanal, Tramutone, la Mannara, Giango, i fratelli Sgomberati, Bingo Caccola e Tamara Colibrì, Maria Sandokan, Adelmo il Cupo, Checca e Caco.
IL TEMPO INVECCHIA IN FRETTA – ANTONIO TABUCCHI
Tutti i personaggi di questo libro sembrano impegnati a confrontarsi col tempo: il tempo delle vicende che hanno vissuto o stanno vivendo e quello della memoria o della coscienza. Ma è come se nelle loro clessidre si fosse alzata una tempesta di sabbia: il tempo fugge e si ferma, gira su se stesso, si nasconde, riappare a chiedere i conti. Dal passato emergono fantasmi beffardi, le cose prima nettamente distinte ora si assomigliano, le certezze implodono, le versioni ufficiali e i destini individuali non coincidono. Un ex agente della defunta Repubblica democratica tedesca, che per anni ha spiato Bertolt Brecht, deambula senza meta a Berlino fino a raggiungere la tomba dello scrittore per confidargli un segreto. In una località di vacanze un ufficiale italiano che in Kosovo ha subito le radiazioni dell’uranio impoverito insegna a una ragazzina l’arte di leggere il futuro nelle nuvole. Un uomo che inganna la propria solitudine raccontando storie a se stesso diventa protagonista di una vicenda che si era inventato in una notte d’insonnia. Come in un quadro di Arcimboldo, dove le singole figure compongono in prospettiva la figura maggiore che le ospita, i personaggi di questo libro disegnano l’ineffabile volto di una stagione. È la nostra epoca impietosa e futile, fatta di un tempo anfibio che non scandisce più la vita e del quale ci sentiamo ospiti estranei. Storie straordinarie che entrano in modo indelebile nel nostro immaginario, anche se non appartengono al piano dell’immaginario ma a una realtà di cui forse abbiamo perso il codice. Sono le storie di Antonio Tabucchi.
I MITI DEL NOSTRO TEMPO – UMBERTO GALIMBERTI
Culto della giovinezza, idolatria dell’intelligenza, ossessione della crescita economica. E ancora: tirannia della moda, ansia della perfezione corporea, perfino l’accettazione della guerra come evento ineluttabile e manifestazione di coraggio, lealtà, spirito di sacrificio. Sono i miti di oggi. O meglio, sono alcuni dei “falsi miti” che pervadono e plasmano la nostra società. Quelli che la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa propongono come valori e impongono come pratiche sociali, fornendo loro un linguaggio che li rende appetibili e desiderabili. Umberto Galimberti li passa in rassegna, li smonta, ne denuncia la natura ingannevole, mostrando come i falsi miti del mondo in cui viviamo siano in realtà “idee malate”, non avvertite come tali, e quindi tanto più capaci di diffondere i loro effetti nefasti senza trovare la minima resistenza. Un mito nasce quando i fatti e le pratiche di vita a cui si riferisce non sono formulati in un idioma appropriato. Demitizzarlo non significa negare quei fatti, ma restituirli al loro idioma. È necessario per questo un lavoro di svelamento e di smascheramento: un lavoro che da sempre ha visto i filosofi impegnati in prima linea, se è vero che la filosofia – almeno la migliore filosofia – è un continuo correttivo di idee stantie, divenute egemoni per forza d’abitudine, per eccesso di pratica e di condivisione, in fondo per la pigrizia del pensiero.