Non conviene amare una cicognina – Alberto Moravia

Non conviene amare una Cicognina – Alberto Moravia

Alcuni miliardi di anni fa, un certo Barba Gianni, vecchione  oltremodo misantropo, viveva in una grotta che si apriva a metà  di una parete rocciosa la quale, verso l’alto, pareva salire fino  al cielo e, in basso, sprofondare in un abisso senza fine. Dalla  grotta, sporgeva nel vuoto uno sperone rupestre; ogni notte,  Barba Gianni ne spiccava il volo per andare a caccia di un topo o  due da mettere in tavola il giorno dopo. Barba Gianni non aveva  mai voluto sposarsi; diceva: “Eh, mica sono scemo; forse che vado  a mettermi una estranea in casa?”. Le faccende gliele sbrigava un  suo cameriere a nome Pipi Strello, bravo e affezionato, che,  però, aveva la pessima abitudine di starsene tutto il tempo con  la testa in giù, aggrappato al soffitto con le dita dei piedi.  Questa abitudine, secondo Barba Gianni, influiva, e come avrebbe  potuto essere altrimenti?, sulle idee di Pipi Strello. “Stando  con la testa in giù,” osservava Barba Gianni, “alla fine non si  possono pensare che pensieri con la testa in giù”.

L’osservazione trovò ben presto conferma. Uno di quei crepuscoli,  Barba Gianni se ne stava sullo sperone roccioso preparandosi a  spiccarne il volo per andare a caccia di topi, quando, laggiù,  lontano lontano, nel limpido cielo vespertino, vide qualche cosa  come una sciarpa bianca e ondeggiante che si avvicinava ora  allungandosi e ora accorciandosi. Che roba era?

Barba  Gianni scrutò la sciarpa e alla fine capì: era uno stormo enorme  di Ci Cogne che, come sono solite ogni anno alla fine dell’autunno, migravano per svernare nel sud.

Barba Gianni  non poteva soffrire le Ci Cogne, uccelli irrequieti che non  stanno mai fermi e ora vivono in cima ad un campanile in Germania  e ora te le ritrovi su un baobab in Africa, “forse pianto baracca  e burattini e me ne scappo al lago Ciad?”. Così, anche quella  sera, Barba Gianni, come tante altre volte, si ritirò in fondo  alla sua grotta e lì rimase immobile, con gli occhi gialli  spalancati nel buio, in attesa che lo stormo fosse passato.

Le Ci Cogne ci misero non so quanto a sfilare davanti alla  grotta. Erano centinaia e facevano un gran chiasso perché sono  uccelli chiacchieroni e, pur volando, non smettono un momento di  parlare del più e del meno.

Barba Gianni vedeva quel fiume di penne bianche scorrere laggiù, fuori dalla grotta e, dalla  grande antipatia, sbatteva le palpebre sugli occhi fosforescenti come se qualcuno l’avesse preso a schiaffi. Finalmente, passarono  anche le ultime Ci Cogne ritardatarie e poi, grazie a Dio, più  nulla.

Barba Gianni trasse un respiro di sollievo, aspettò  ancora un poco, quindi, appena fu sicuro che lo stormo delle Ci  Cogne era ormai lontano, uscì dalla grotta. Ma ecco, proprio nel  momento in cui stava per spiccare il volo, ecco, qualche cosa gli  cascò addosso con tanta violenza che per poco non lo travolse. Come si fu ricomposto alla meglio, vide che il bolide era una Ci  Cogna piuttosto piccola, giovinetta, che appariva visibilmente turbata. Disse la Ci Cogna, dopo un momento, ancora tutta  ansimante: “Dov’è, dove è andato?”.

“Ma chi?”.

“Il mio  stormo, lo stormo delle Ci Cogne”.

“Eh, ormai è già un’ora che  è passato”.

Avete mai visto una Ci Cogna piangere? Io no; ma me l’immagino benissimo. La piccola Ci Cogna scoppiò in lagrime e non la finiva più di singhiozzare. Tra un singhiozzo e  l’altro, venne fuori la sua storia: volando di conserva con il  babbo, la mamma e cinque tra fratelli e sorelle, Cognina (così si  chiamava la giovinetta) aveva fatto una mossa falsa e si era  storta un’ala. Così era rimasta indietro, ih ih ih, e se, in quel  momento non avesse trovato quello sperone provvidenziale, ih ih  ih, certo sarebbe cascata giù giù sulla terra, ih ih ih, per  essere poi divorata, ih ih ih, da una delle tante belve, ih ih  ih, per le quali la Ci Cogna è un cibo prelibato, ih ih ih.

Barba Gianni, di tutto questo discorso, capì soltanto una  cosa: che Cognina non poteva proseguire nel volo e perciò doveva  restare per qualche tempo nella grotta, mettendo, così, in  pericolo la sua cara solitudine. E stava già per rispondere: “E  io che cosa posso farci? Perché non vai a chiedere ospitalità a uno dei tanti tuoi parenti, per esempio tuo zio Mara Bu oppure  tuo cugino Tan Talo? Loro hanno nidi grandi; io, lo vedi, ci ho  soltanto questa grotticella che, per giunta, debbo condividere con Pipi Strello”; quando, dal fondo della grotta, gli giunse la voce, appunto, di Pipi Strello, che diceva: “Barba Gianni, non  fare sciocchezze, questa è la grande occasione della tua vita e  tu non devi lasciartela sfuggire”.

“Ma quale occasione?”.

“Di liberarsi una buona volta della solitudine e della  misantropia, accogliendo nella tua grotta un essere nuovo, giovane, una presenza bianca, luminosa, solare”.

“Ma io sono  nottambulo; alla mia età non si cambiano certe abitudini”.

“Vedrai Barba Gianni, che le cambierai”.

“Tu parli in questo  modo perché te ne stai con la testa in giù”.

“Meglio la testa in giù che nessuna testa, Barba Gianni”.

Insomma, a farla  breve, Cognina non soltanto rimase nella grotta, in attesa di  guarire; ma, proprio come Pipi Strello aveva preveduto, Barba  Gianni cambiò le proprie abitudini. Non volava più di notte, con  le stelle e la luna; ma di giorno, nella piena luce del sole; non  andava più a caccia di sudici topi neri e pelosi ma di freschi,  argentei pesciolini. Persino la voce gli si era cambiata: da un  blaterare rauco ad un modulato bisbigliare. A cosa si doveva  questo cambiamento così radicale? Semplice: all’amore. Barba  Gianni si era innamorato di Cognina; non la lasciava mai neppure  un solo momento. Così che era ormai un fatto abituale vederli  insieme, lungo i fiumi e in riva ai laghi, luoghi preferiti da  Cognina, lei bianca e dinoccolata, elegantissima con le sue zampe  alte e sottili e il suo lungo becco; lui, invece, scuro e  tracagnotto, tondo come una palla, con il suo beccuccio ricurvo e  i suoi enormi occhiali da notaio.

Ma Barba Gianni, pur  essendo innamorato, aveva paura; nei momenti in cui Cognina non  lo sentiva, diceva al fido Pipi Strello: “Mi sa che questa  Cognina è una furba matricolata: le dai una mano, ti prende il  braccio”. Pipi Strello, però, gli rispondeva: “Anche se le darai  il braccio, sarà ancora poco”. Barba Gianni brontolava: “Eh, già,  tu parli così perché te ne stai con la testa in giù e vedi tutto  alla rovescia”. A questo punto Pipi Strello ribatteva: “Volesse  il cielo che almeno una volta in vita tua vedessi le cose a testa  in giù”.

Intanto Cognina non soltanto era guarita ma si  era fatta grande e bella. Abitava pur sempre nella grotta di  Barba Gianni; ma si assentava spesso, misteriosamente, così che  Barba Gianni, ingelosito, si mise a pedinarla e scoprì ben  presto che la sua ospite andava a far visita ad un certo Cico  Gnino, individuo ben noto per le sue prodezze di inveterato  dongiovanni. Barba Gianni arrischiò un rimprovero; non l’avesse  mai fatto, ne ebbe questa risposta: “Vedo chi mi pare e piace e  tu chiudi il becco”. Barba Gianni, mortificato, si confidò con  Pipi Strello. Ma la risposta fu la solita: “Vedendo le cose come  le vedo, a testa in giù, ti dico che sei fortunato. Cognina ti  tradisce: ebbene, anche questo è meglio che nulla”.

Con  quest’idea che qualsiasi cosa, perfino il tradimento, era meglio  che nulla, Barba Gianni alla fine accettò anche di costruire il  nido nel quale Cognina avrebbe allevato i figli suoi e di Cico  Gnino. Così, il povero vecchio fu visto volare avanti e indietro  portando nel becco manciate di fieno, pezzetti di carta,  lanugini, rami e rametti, steli di canne, stracci e, insomma,  ogni sorta di materiale per rendere più solido e più comodo il  nido dei figli non suoi. Ma Pipi Strello, ostinato, continuava ad  ammonire: “Non lamentarti. Così, almeno, vivi. Prima cos’eri? Un  morto”.

Adesso il nido, enorme, stava sospeso in bilico  nel vuoto, in cima al solito sperone di roccia. E quando ben  cinque Ci Cognini sbucarono dalle uova e presero a fare un  baccano del diavolo, coi becchi protesi in su, fuori del nido,  esigendo con prepotenza di essere nutriti, chi fu che si fece in  quattro per portare loro ogni specie di vermi, lumache e insetti  di vario genere se non, appunto, il povero vecchione Barba  Gianni? Ma Pipi Strello non si impietosiva: “Ecco, adesso hai una  vera e propria famiglia. Cosa vuoi di più? Fortunati come te, ce  ne sono pochi”.

Andò a finire che, da una fortuna  all’altra, uno di quei giorni, Barba Gianni si sentì dire in  maniera molto sbrigativa da Cognina: “Beh, carissimo Barba  Gianni, è giunto il momento di separarci. Provo non so che  prurito alle ali, non so che smania nelle gambe, non so che  fremito nel petto: tutto mi dice che i miei figli ed io stiamo  per migrare. E tu cosa vuoi fare? Vieni con noi oppure resti  qui?”.

Barba Gianni trasecolò: “Come, tu vuoi andar via?”.

“Certo, si capisce, più niente mi trattiene qui”.

“Neppure  un sentimento, non dico di amore, ma almeno di gratitudine?”.

“Il solo sentimento che provo è una gran voglia di volare via al  più presto”.

“Cerca di dominarti”.

“Impossibile. E’ più  forte di me”.

Barba Gianni, disperato, insistette: “Ma  dove vai? Lo sai, almeno dove vai?”.

Cognina rispose  risentita: “Noi altre Ci Cogne non sappiamo mai dove andiamo.  Dobbiamo andare, ecco tutto”.

“Ma quelle di voi che tornano, te l’avranno pur detto dove erano state”.

Cognina disse un  po’ vagamente: “Dicono che in un luogo lontanissimo c’è un lago  grandissimo con una grandissima luce nel cielo. Nel lago ci sono tanti, tanti uccelli che svolazzano sull’acqua, pescano pesci  grossi così, si spollinano, prendono il sole, sono felici”. “E  io, secondo te, sarei felice anch’io, laggiù?”. “Tu sei felice,  secondo me, soltanto al buio, di notte, quando vai a caccia di  topi e poi torni alla grotta con un grosso topo e Pipi Strello te  lo cucina e te lo mangi”.

Che fare? Pipi Strello,  consultato, sentenziò: “Meglio un giorno da cicogna che cent’anni  da barbagianni”; Cognina si dava già da fare per i preparativi della partenza; Barba Gianni allora si decise e annunziò che  sarebbe venuto anche lui. Partirono all’alba. Dallo sperone,  spiccò il volo, per prima, Cognina, poi i cinque figli, alla fine  Barba Gianni. Pipi Strello, lui rimase nella grotta, ma promise che li avrebbe raggiunti appena avesse avuto loro notizie.  Intanto gridò a Barba Gianni, pur sempre stando con la testa in giù: “Fai bene a partire: non si vive che una volta sola”.

Vola, vola, vola, Barba Gianni si accorse ben presto che non ce la faceva. Cognina aveva le ali lunghe, lui, invece, le aveva corte; aveva polmoni molto sviluppati, lui, invece, piccoli e  stretti; ci vedeva benissimo, lui, invece, era accecato dal sole.  Una mattina che sorvolavano un mare immenso che era tutto un barbaglio di luce, Barba Gianni avvistò un’isoletta e allora  implorò Cognina: “Fermiamoci per un poco lì, su quello scoglio,  così ci riposiamo”. Cognina rispose: “Fermati tu, noi  proseguiamo”. “Ma io sono stanco”. “Tanto peggio per te”. Questa  durezza di cuore di Cognina fece precipitare la decisione di  Barba Gianni. Senza salutare nessuno, discese sull’isoletta, stette lì qualche ora solo solo a contemplare tristemente il mare, quindi riprese il volo ma questa volta in direzione della sua grotta.

Trovò tutto quanto come l’aveva lasciato. Pipi  Strello, che stava tuttora con la testa in giù, gli gridò subito: “Rimpiangerai tutta la vita di non essere andato fino al lago”.

Barba Gianni non gli rispose, perlustrò la grotta, trovò una lunga penna bianca, probabilmente caduta dall’ala di Cognina.  La prese nel becco e uscì sullo sperone. Ecco lì, il nido, intatto ed enorme, tutto ovattato dentro di lanugine e di fieno.  Barba Gianni aprì il becco e la penna bianca cadde nell’abisso. Poi fu la volta del nido: alla spinta di Barba Gianni, oscillò, stette un momento in bilico sull’orlo dello sperone, quindi cadde  giù volteggiando, e scomparve. Adesso sorgeva la luna; in quella  luce argentea si scorgeva tutta l’immensa pianura nella quale Barba Gianni era solito andare a caccia. Barba Gianni disse:  “Beh, vado a prendere un topo, per domani”. Pipi Strello gridò, testa in giù: “Come lo faremo?”. Barba Gianni rispose: “Al forno;” e volò via.

Storie della preistoria, Alberto Moravia, Bompiani, 1989

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