Tra il Gran Canyon e la Cappella Sistina
A portarci in Cappadocia fu la forza di una frase, altrimenti il nostro viaggio sarebbe terminato ad Ankara, dove andavamo apposta da Istanbul per vedere un museo.
Ultima serata a Istanbul, una cena a casa di amici. Fra gli invitati, inaspettatamente, una persona di mia conoscenza. Metà americana e metà fiorentina, docente di matematica a New York, da un anno era visiting professor all’Università di Istanbul, e la Turchia l’aveva girata in lungo e in largo. Non so se è perché frequenta le Matematiche, ma è capace di cortocircuiti di idee che vanno al di là della logica comune. “La Cappadocia? È un incrocio fra il Gran Canyon e la Cappella Sistina”, mi disse. Non si può resistere a una definizione come questa.
Ad Ankara, prima tappa, visitammo il museo che avevamo in programma, quello delle Civiltà anatoliche, forse anche perché avevo sempre sospettato che gli Ittiti fossero una fantasia del mio vecchio professore del liceo, e da quel museo aspettavo una conferma o una smentita. Aveva ragione il mio professore: gli Ittiti, per me popolo dal nome di pesci immaginari, sono esistiti davvero, e il Museo delle Civiltà anatoliche, con quelle stupefacenti statuette che sembrano uscite dal ventre del Tempo, lo testimonia senza possibilità di smentite.
L’aereo per la Cappadocia era al completo per i tre giorni successivi, così affittai una macchina e dopo un viaggio non proprio comodissimo di qualche centinaia di chilometri la sera arrivammo ad Ürgüp, la città più importante di quella regione di montagne erose dal vento e dipinte dagli uomini. Con un paesaggio lunare di monti di tufo (cenere, lava e fango, la zona è vulcanica) scavati dalle intemperie e altissimi funghi calcarei detti “camini delle fate” (Pasolini vi girò la sua Medea), la regione cela all’interno delle montagne chiese e cappelle decorate da straordinari affreschi bizantini. Dotate di depositi per grano, stalle, cucine, condutture d’aria, enormi stanze per riunioni e dormitori, queste vere e proprie città scavate nella roccia (le più celebri quelle di Özkonak, Tatlarin, Kaymakli, dove si rifugiarono i cristiani nel settimo secolo per sfuggire alle persecuzioni, evitanto le invasioni turche e il conflitto con Bisanzio iconoclasta) sono una stupefacente dimostrazione della resistenza e dell’adattamento umano.
Non è sempre facile penetrare in questi labirinti sotteranei. A volte è necessario percorrere lunghi cunicoli carponi, o comunque in condizioni disagevoli, e per chi soffre di claustrofobia è più prudente una visita al monastero di Eskigümüs, dove gli affreschi bizantini, mai ritoccati, si sono conservati in maniera stupefacente. Oppure al museo all’aria aperta di Göreme, un complesso monastico di chiese e cappelle rupestri con affreschi straordinari, uno dei siti archeologici più famosi della Turchia. Di quel luogo mi è rimasta impressa nella memoria una piccola chiesa (non ne ricordo il nome, e non l’ho scritto sul mio taccuino di viaggio), con le raffigurazioni di un inferno dove i dannati sono avvolti fra le spire di serpenti (ricordo con esattezza i portentosi e surreali serpenti, mentre i dannati mi sembrarono seriali).
A Ürgüp ci fermammo alla Esbelli Evi Pension, un minuscolo convento troglodita con sei o sette stanze che alcuni anni fa un giovane avvocato turco ha trasformato in hôtel de charme. Credo che ultimamente abbia avuto numerose imitazioni, probabilmente non all’altezza del modello. La decorazione delle stanze, con mobili antichi scelti dal proprietario, è elegante ma non snob; i tappeti (alcuni antichi di famiglia) bellissimi; pochi gradini conducono a un terrazzino privato con una vista superba. In ogni camera una decina di libri di ottima qualità in varie lingue, e il soggiorno comune è dotato di una nastroteca impressionante (il proprietario è un raffinato melomane). Inoltre (fortuna sfacciata) vi trovammo un’arpista che abitualmente vi si ritira a studiare prima di ogni concerto. Suonava nella luce della sera inginocchiata su un piccolo tappeto kilim, le mani che sembravano danzare nell’aria.
Maria José si ricordò di un verso di Pessoa e lo recitò in una lingua che la musicista comprendeva: “Oh suonatrice di arpa, potessi baciare il tuo gesto senza baciare le tue mani!” E lei improvvisò un piccolo concerto solo per noi.
A.Tabucchi, Viaggi e altri viaggi. Milano: Feltrinelli, 2010.