Foto: Internet
Per passare da qui è necessario venirci apposta, come spesso è necessario per i luoghi un po’ speciali. Per arrivare al punto: siamo in Brasile, supponiamo che siate arrivati a Rio de Janeiro. Che è, come giustamente la chiamano, la “Cidade maravilhosa”. Ma viste le sue meraviglie (al positivo e al negativo), le giornate sulle spiagge di Copacabana o di Leblon sono identiche a quelle di ogni parte del mondo dove esistono spiagge del genere, solo un po’ più pittoresche e un po’ meno “tessili”, dati gli esigui centimetri delle “tangas” delle ragazze: ma il sole è lo stesso e l’acqua del mare pure. Dunque possiamo andare a Congonhas do Campo.
La direzione è Belo Horizonte, capitale dello Stato di Minas Gerais, a circa quattrocento chilometri, servita da frequenti voli. Città che varrebbe una sosta, dirà la vostra guida, soprattutto per il monumentale complesso architettonico della Pampulha realizzato da Oscar Niemeyer e Burle Marx. Sarà per un’altra volta. Ci scusiamo con l’architettura contemporanea: abbiamo un appuntamento con quella antica, e la macchina affittata all’aeroporto ci servirà anche da macchina del tempo per retrocedere fino al Settecento, al magnifico barocco portoghese di Congonhas do Campo.
A Congonhas converrebbe arrivare al calare del sole per approfittare della luce da miraggio del tramonto, aggirare senza guardarli gli edifici costruiti negli anni Cinquanta, quando il governo brasiliano decise di risfruttare le miniere (quel poco che restava dei grandi giacimenti auriferi che fecero la fortuna di Minas Gerais coloniale), e dirigersi verso la basilica del Bom Jesus de Matosinhos, rimasta intatta al limitare dell’abitato, in un enorme spiazzo in pendio dove palmizi dall’esile ciuffo sul tronco altissimo accompagnano le sei cappelle della Via Crucis che conducono alla cattedrale. Sulla spettacolare scalinata disegnata a rombo si ergono in pose di una leggiadria sorprendente, data la mole gigantesca, le statue di pietra dei dodici profeti. Le scolpì Antonio Francisco Lisboa detto l’Aleijadinho, figlio illegittimo di mastro Manuel Franscisco Lisboa e della sua schiava Isabel. Questo prodigioso scultore, forse il più grande dell’epoca barocca portoghese, fu colpito dalla lebbra in giovane età (Aleijadinho significa “storpio”, lo Storpietto) e si racconta che ormai incapace di camminare si facesse condurre in portantina fino alla cattedrale per scolpire le sue statue con degli scalpelli legati ai moncherini delle braccia rosicate dalla malattia. Le enormi statue sono in “pedra-sabão” (alla lettera “pietra-sapone”), una pietra dolce e friabile che i venti del “sertão” hanno intaccato nei volti come la malattia che divorò chi li scolpì.
Intanto è calata la sera e le cappelle della Via Crucis sono chiuse. Ma il guardiano, che abita in una casetta vicina, le aprirà gentilmente per voi se saprete essere convincenti, perché – è una cosa da specificare – vi piacerebbe proprio vederle illuminate dalla luce artificiale. Guardando nella luce irreale dei faretti i gruppi delle sculture lignee a grandezza naturale dell’Aleijadinho (l’Ultima cea, l’Orto degli ulivi, l’Arresto di Cristo, la Flagellazione, il Calvario, la Crocifissione), che nonostante la patina del tempo mantengono ancora i colori accesi che piacevano ai barocchi, forse penserete che questo era un luogo che meritava una sosta. Fra una cappella e l’altra, nel tappeto erboso, cantano i grilli. Sono dei piccoli grilli verdi quasi diafani; tenere sul palmo uno di quegli orchestrali che sui loro organetti sembrano suonare un requiem alla passione del Cristo scolpita da un artista infelice, mentre intorno a voi centinaia di altri grilli lo accompagnano, vi darà l’impressione di dirigere un’orchestra lunare, dove tutto è assurdo, musica e figuranti.
Poco lontano c’è una locanda. È rustica, con letti antichi e suppellettili di cuoio, come si addice alla vita dei butteri di queste parti. Il materasso di crine da principio vi sembrerà scomodo, ma poi vi dormirete magnificamente. Magari pensando che troppo grande e sorprendente è il Brasile per farvi solo questa sosta.
Viaggi e altri viaggi – A.Tabucchi, Feltrinelli, 2010