Grupo Proficiência em Italiano – FDUSP / FUVEST

ITALIANO PREPARATÓRIO PROFICIÊNCIA – FDUSP / FUVEST –

Objetivo:

O curso prepara os alunos para a leitura de artigos jornalísticos, textos acadêmicos e literários, por meio de aulas dinâmicas e participativas. Serão abordados três aspectos fundamentais exigidos nos exames de proficiência do PPGD da FDUSP: compreensão e interpretação de texto, gramática instrumental e cultura italiana. A metodologia utilizada dispensa conhecimento prévio do idioma, priorizando o estágio atual do aluno e seu tempo disponível. As aulas, realizadas à distância, acontecem via Google Meet. O material didático (apostilas, textos, traduções e exercícios) é enviado por e-mail.

Desenvolvimento do curso:

– Técnica de leitura de textos acadêmicos, literários ou jornalísticos.

– Compreensão: organização textual, construção de sentido, coerência e coesão textual.

– Apresentação de estruturas gramaticais e técnicas de tradução.

– Estudo de aspectos morfossintáticos, terminologia específica e uso de dicionário.

– Prática de técnicas de memorização de vocabulário específico.

– Suporte para solução de dúvidas.

Carga Horária:          24,5 horas

Dias e Horários:        Terça-feira das 7h às 9h  e Sexta-feira das 11h às 12h30

Início:                          06/05/25

Término:                     20/06/25

Inscrições:                 de 14/04 a 28/04

Nº participantes:       mínimo 8 alunos // máximo 10 alunos

Investimento: valor integral R$ 4.900,00

Descontos:

Inscrições ATÉ o dia 18 de ABRIL DE 2025:

– R$ 4.410,00, valor para pagamento à vista;

Inscrições APÓS o dia 18 de ABRIL e até 28/04: 

– R$ 4.900,00, valor sem redução para pagamento à vista, ou

– R$ 4.900,00  – 50% na inscrição // – 50% após 30 dias

Os pagamentos são aceitos exclusivamente via transferência bancária (Pix, TED)

Arrivederci!

insieme@uol.com.br

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FDUSP – Seleção para Pós-Graduação 2025-2026

Aos interessados em participar do processo seletivo para alunos regulares, a Comissão publicou o seguinte comunicado:

COMUNICADO

A Presidência da Comissão de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da Universidade de São Paulo torna públicas as principais datas para os interessados em se inscrever no processo seletivo de 2025 para Ingresso no PPGD da FDUSP no ano de 2026:

· 10 de abril de 2025, 12h: publicação do Edital, pela FUVEST, das provas de línguas (verificar site FUVEST – ATENÇÃO: a FUVEST oferece prova de espanhol para OUTROS Programas; o PPGD NÃO aceita proficiência em espanhol)

· 30 de abril de 2025: publicação do Edital do Processo Seletivo (DOE e site FDUSP)

· 21 e 22 de junho de 2025: provas presenciais de proficiência em línguas estrangeiras de alemão (21/06), francês, inglês e italiano (22/06).

· 03 de agosto de 2025: prova (PRESENCIAL) de conhecimentos jurídicos (para candidatos ao mestrado, ao doutorado e ao doutorado direto)

As demais datas de interesse dos candidatos constarão dos referidos Editais.

03/04/2025

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Un siciliano e la sua doppia vita – Andrea Camilleri

Un siciliano e la sua doppia vita

Quando di un uomo si dice che ha una “doppia vita”, s’intende, generalmente, questo: che la prima delle due vite appare assolutamente rispettabile, mentre la seconda, di sicuro, rispettabile non lo è. La casistica, al riguardo, è infinita: tanto per fare un esempio consacrato dalla letteratura e dal cinema, si pensi al dottor Jekyll e a Mister Hyde. Qualcuno potrà sostenere che l’esempio è sbagliato, perché nel caso che ho citato non si trattava di una doppia vita, ma di uno sdoppiamento della personalità.

Ma allora basterà rifarsi alla cronaca quotidiana: leggiamo purtroppo spesso di ottimi, stimati padri di famiglia che abusano delle figlie minorenni; di rappresentanti della legge che nottetempo fanno i rapinatori assassini (la storia dei fratelli Salvi con la loro Uno bianca è esemplare); di magistrati apparentemente inflessibili, rigorosi, ma in realtà profondamente corrotti (e qui la prudenza mi invita a non portare esempi). Comunque sia, la conclusione è sempre la stessa: la prima vita ha un valore di facciata e si svolge perciò alla luce del giorno, la seconda – invece – è una vita notturna, si svolge nel chiuso più chiuso di un segreto.

Ma io qui voglio scrivere di altri casi di doppia vita nei quali la seconda non ha nulla di vergognoso, losco, delittuoso. Anzi.

Carmina non dant panem” dicevano i Romani, e avevano perfettamente ragione. Non solo la poesia non dà pane, ma nemmeno la prosa o la saggistica. Nella nostra bella Europa, non si può campare scrivendo, per dedicarsi alla scrittura l’autore europeo deve assolutamente fare una “prima” vita. Anche stavolta qualcuno potrà ribattere che sto sbagliando: di doppio lavoro si tratta, non di doppia vita.

Eh,no. “La vita o la si scrive o la si vive” affermò una volta Pirandello. E quando sei messo nella condizione di volerla scrivere, contemporaneamente all’obbligo di viverla, la vita? Non ti resta che fare come Franz Kafka, impeccabile impiegato di banca di giorno e scrittore di notte. E quindi, siccome Kafka è passato alla storia come uno dei più grandi scrittori del Novecento e non come uno dei più grandi bancari, ne consegue che la sua vera vita era la seconda, quella esercitata di nascosto, e non la prima.

Su un caso di doppia vita che c’interessa da vicino vorrei soffermarmi oggi, perché si tratta di un siciliano certamente poco conosciuto dai suoi conterranei. Mi riferisco ad Antonio Pizzuto, nato a Palermo nel 1893. Pur provenendo da una famiglia che molti contatti aveva con i classici e con la poesia, Pizzuto si laurea in legge, vince un concorso, diventa poliziotto, fa una bella carriera, la conclude come questore. Non solo, viene nominato presidente della Commissione internazionale di Polizia criminale (credo sia l’Interpol…). Ma nei ritagli di tempo, o di notte, questo “sbirro” d’alto livello traduce Cicerone, Platone e Kant. Non è finita: andato in pensione, a 66 anni pubblica un romanzo, Signorina Rosina. I più importanti critici (non solo italiani) salutano il libro come un evento: si tratta certamente del romanzo più innovativo degli ultimi anni. Coi suoi scritti ulteriori, Pizzuto arriverà all’invenzione di una lingua nuova che segue regole musicali, non sintattiche. Non a caso il suo quinto libro s’intitola Sinfonia.

Confrontiamo le date. Nel 1958 il vecchio principe siciliano Tomasi di Lampedusa viene rivelato al mondo come l’autore di un libro nato “classico”; l’anno appresso il vecchio ex questore siciliano – Pizzuto, appunto – viene definito “il primo romanziere d’avanguardia nella letteratura italiana del Novecento”. Due siciliani, due nomi della nostra storia letteraria.

Andrea Camilleri, Racconti quotidiani. Milano: Mondadori, 2007, pp 53-56

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Madre Na Tura decide di cambiare il mondo – Alberto Moravia

Un miliardo di anni fa, nell’isola Gala Pagos abitavano una donna e suo marito. Lei si chiamava Na Tura e lui Evo Luzione. Na era una donnona maestosa ma per niente placida come avviene spesso alle donne molto formose. Era ,invece, bisbetica, capricciosa, incostante, violenta, malinconica. Evo, il marito, era tutto il contrario: piccolo, magrolino, con un sospetto di gobba, la faccia sagace, occhialuta e benevola. Na non faceva nulla, diciamo che era una casalinga; Evo era uno studioso molto sgobbone che, a forza di studi, era diventato mago.

Adesso bisogna sapere che al tempo in cui si svolsero gli avvenimenti che stiamo per raccontare, l’isola Gala Pagos era molto diversa da quella che è oggi. Non tanto nell’aspetto fisico: nuda e rocciosa era allora, nuda e rocciosa è oggi; ma nella fauna. Diciamo pure che era abitata esclusivamente da una grandissima quantità di giganteschi rettili. Tra le rocce, sui pianori, in cima ai monti, nelle baie e intorno ai promontori, era tutto un brulichio di mostri uno più orrido dell’altro. Dovunque si trascinavano pesantemente colossali Dino Sauri con code e colli lunghissimi, teste minuscole, corpaccioni gonfi come botti. Ce n’erano di tutte le grandezze, di tutte le specie ma tutti avevano in comune la bruttezza più orrenda. Tutti questi mostri facevano un baccano del diavolo, muovendosi l’un l’altro una guerra continua: i carnivori tipo Tiranno Sauro mangiavano gli erbivori tipo Diplo Doco; ma il Diplo Doco non voleva saperne di essere mangiato benché il Tiranno Sauro ce la mettesse tutta; e così erano continuamente gigantesche zuffe, con i ruggiti e gli urli che giungevano alle stelle. Inoltre i mostri non si curavano di essere puliti; l’isola, con rispetto parlando, era tutto un solo cesso o mondezzaio. Ossami, carogne, detriti di ogni genere ricoprivano tutto il territorio, ammorbavano l’aria col puzzo.

Na Tura soffriva a vedere la sua isola ridotta in quel modo. Il puzzo, il chiasso, la sporcizia dei Dino Sauri l’angosciavano, la mettevano fuori di sé. Ma non poteva farci nulla perché questo mondo pieno di mostri era stata proprio lei a volerlo così. Alcuni miliardi di anni prima i rettili non c’erano; il mondo era fatto soltanto di acque sterminate e calmissime dalle quali, qua e là, emergevano bellissime isolette verdeggianti e fiorite. Un mondo sereno, silenzioso, calmo, beato. Ma Na; capricciosa e volubile com’era, si era molto presto stufata di questo mondo ideale; e aveva cominciato a tormentare Evo che era poi colui che, pur sempre su sua richiesta, aveva fatto il mondo a quel modo: “Guarda, distruggimi questo mondo così uggioso altrimenti io impazzisco dalla noia.” Evo allora le diceva: “Ma è il mondo che hai voluto tu.” “Sì, l’ho voluto io; e con questo?” “E come lo vorresti adesso?”“Lo vorrei più drammatico, più strano, più fantastico. Basta col mare che lambisce le sponde, coi venti che accarezzano le erbe, coi fiori che si levano verso il sole. Basta con questa melassa! Voglio un mondo che magari mi faccia orrore, ma mi scuota! Magari popolato di mostri! Sì, benvenuti i mostri se mi tirano fuori dalla noia.” Ed Evo allora, pronto: “Vuoi dei mostri? Bene, li avrai.” Questo in breve fu il motivo per cui di lì a poco (cioè dopo appena un milione di anni), il mondo si riempì di rettili colossali quanto orridi.

Ora però, l’incostante capricciosa Na passava il meglio del suo tempo a rimpiangere il mondo di prima così noioso ma anche così riposante. Se ne stava tutto il giorno rincantucciata in casa e si tappava le orecchie per non sentire i ruggiti, gli urli, i barriti e gli altri suoni orrendi che si levavano fin dall’alba nell’isola e non cessavano un solo momento fino a notte.

Ogni tanto Na urlava: “Basta, basta, basta, io impazzirò, si impazzirò”; ma Evo non le dava retta: la conosceva e sapeva che capricciosa com’era, doveva, come si dice, prima di tutto sbattere il naso contro la realtà, altrimenti, magari di lì ad un solo milione di anni, era capacissima di sfoderare di nuovo un altro capriccio. I mostri li aveva voluti lei, più orridi e più chiassosi che fosse possibile; adesso se li cibasse.

Ma ogni bel gioco dura poco; ed Evo si convinse che ormai Na era stata punita abbastanza. Così un giorno le disse: “Senti, Na, vedo le tue sofferenze e penso che sia tempo ormai di porvi fine. Questo mondo di mostri tu vuoi che non esista più. Benissimo, dimmi allora come lo vorresti. Cambiare il mondo è un’operazione molto difficile; non vorrei fare qualche sbaglio; perciò sarà bene mettersi d’accordo prima.”

Na stette sovrappensiero un bel po’; poi disse con voce ispirata: “Voglio un mondo diverso, completamente diverso da quello di oggi. Un mondo bello.”

“Sì, bello, ma come?”

“Leggero, leggero, leggero.”

“Leggero e poi?”

“Non voglio nulla che strisci, che si trascini, che arranchi.”

“Bene, niente che strisci, e ancora?”

“Non voglio questi colori orrendi, color fango, color bile, color sterco, color pece, color marcio. Voglio un mondo brillante e variopinto come l’arcobaleno.”

“Giusto, e che cos’altro?”

“Voglio,” disse Na chiudendo gli occhi, “invece che barriti, urli, ululati, ruggiti, voci che parlano, cantano, sussurrano, gorgheggiano, armoniose, melodiose, soavi.”

“Chi potrebbe darti torto? È tutto qui?”

“Un momento, adesso viene il più importante. Voglio che tutto ciò che adesso arranca sulla terra, voli, voli, voli. “Ad ogni “voli”, Na elevava un poco più la voce. Concluse: “Voli via e magari non torni mai più.”

Evo disse:”Dunque: degli animali, leggeri, variopinti, parlanti e volanti. Vediamo un po’. Prima di tutto troviamo un nome. Trovato il nome il più è fatto. Che ne dici di: cantivolanti oppure parlivolanti?”

“Che vuol dire?”

“Che volano e insieme cantano o parlano.”

“Troppo complicato.”

“Allora: ariestri.”

“E cioè?”

“Come terrestri, no?”

“Non mi piace.”

Evo si grattò la testa e poi disse: “Metterò due diminutivi in fila per indicare quanto sono carini: ‘ucci’ ed ‘elli’: cioè uccelli.”

Na disse: “Mica male. Vada per uccelli.”

Adesso restava il problema: che fare dei mostri? Na, sempre eccessiva, voleva sterminarli: “Voglio vederli morire tutti, al più presto, dal primo fino all’ultimo, di sete, di fame, di freddo, di fuoco, di terremoto, di maremoto, di fulmine, di eruzione. Guarda, solleviamo un’ondata sola che si abbatta sull’isola e la tenga sott’acqua non più di dieci minuti. Ma, per carità, facciamolo subito.”

Evo, però, non la intendeva in questo modo: “Perché ammazzarli, perché distruggerli? Dobbiamo invece fare le cose per gradi, senza scosse, senza rotture della continuità. I mostri non saranno sterminati, semplicemente si estingueranno per mancanza di prole.”

“E come farai, se si moltiplicano come conigli?”

“Inventerò una bestiolina graziosa che chiamerò cane e sarà ghiottissima delle uóva dei mostri. I quali così moriranno di vecchiaia ma senza discendenti.”

“Le pensi tutte, tu, ”disse Na già un po’ consolata, “adesso parliamo degli uccelli. Come farai a inventarli?”

“Anche per loro ci vorrà un po’ di tempo: appena qualche milione di anni. Devi sapere che tanti piccoli rettili hanno le squame della corazza fatte di una materia molto docile, molto plastica. Con un po’ di pazienza, in capo a, diciamo, trecento milioni di anni, confido di trasformare queste squame in qualche cosa di leggero, di morbido e di mobile che chiamerò piume. Queste piume, distribuite sulle braccia saranno delle ali. Con le ali gli uccelli voleranno.”

Na batté le mani dalla gioia:“Oh che bello!”

E così fu. Il cane si mangiò le uova dei mostri; i mostri morirono di vecchiaia, senza lasciare discendenti; l’isola si riempì di giganteschi scheletri biancheggianti. Adesso regnava il silenzio; in questo silenzio si sentiva la voce di Evo che diceva alla moglie: “Pazienza, ci vuole pazienza, chi va piano, va sano e va lontano. Tra poco ti presenterò il primo uccello, vedrai come è bello!”

“Tra poco quando?”

“Eh, soltanto cinquanta milioni di anni.”

Così venne quel giorno tanto aspettato. Evo presentò alla moglie, inerpicato sulla sua spalla, il primo uccello mai creato: variopinto pennuto, parlante. Insomma, un bellissimo pappagallo. Evo disse alla moglie:“Eccoti Lo Reto. Lo Reto di’ qualche cosa alla padrona.”

Lo Reto si alzò più che poté sulle zampe, si gonfiò tutto e lanciò in faccia a Na: Vecchia megera!”

Così si ruppe il matrimonio tra Na e Evo. Offesa, pensando che il marito avesse addestrato Lo Reto per insultarla, Na se ne andò, lasciando Evo a perfezionare i suoi uccelli. I quali, come è noto, cantano ma non parlano: Evo non aveva voluto ripetere l’errore del pappagallo. Ma cosa succederà il giorno che moglie e marito si riconcilieranno? Non avrà forse Na un altro dei suoi capricci, non vorrà forse cam-biare di nuovo il mondo?

Alberto Moravia, Storie della preistoria, Milano, Bompiani, 1989, pp 120-125

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Senza ragione – Elena Ferrante

Ho avuto e ho qualche nemico, dispiace molto ma è così. Come nasca un’inimicizia non lo so. Ogni generalizzazione mi sembra arbitraria, faccio fatica anche a dare credito alla tesi che i nemici siano indispensabili per definirci e rafforzare la nostra identità. Io non ho mai sentito questo bisogno, le inimicizie non mi hanno dato altro che ansie, ne avrei fatto volentieri a meno. D’altra parte non c’è dubbio che la storia del genere umano sia storia soprattutto di inimicizie e non si può liquidare il problema con un’alzata di spalle. Diciamo allora che non mi appassionano le inimicizie immediatamente riducibili a una ragione determinata: il possesso di una sorgente, il possesso di pozzi di petrolio, il possesso di una regione, etc. Esse sboccano tradizionalmente nell’assassinio, nella guerra, nel massacro, e mi fanno semplicemente orrore. Non parliamo poi delle piccole inimicizie che nascono di continuo nella quotidianità, quelle dovute a uno sgarbo, a una parola triviale, a una maldicenza, a una promessa non mantenuta, a un inganno. Sono comportamenti occasionali, a volte ce ne pentiamo, a volte chiediamo scusa, spesso inutilmente. Ne ho paura, temo di essere trascinata in piccoli conflitti sempre prossimi a grandi manifestazioni di ferocia. Ma soprattutto mi sembra insopportabile occuparmi di sciocchezze e vivere agitata per futili motivi. In realtà, tra tutte le possibili inimnicizie, mi interessano davvero solo quelle senza ragione, quelle che si possono riassumere così: “Che t’ha fatto?”, “Non lo so, mi dà ai nervi anche solo vederla”. Qui mi pare che valga la pena scavare, la vecchia formula dell’antipatia personale mi sembra insufficiente. Cosa accade ai nostri corpi quando urtiamo I’uno contro l’altro? Perché certe persone ci sembrano così diverse da noi, che non riusciamo ad accettarle, a riconoscerne l’umanità? Basterebbe un po’ di buona volontà e non ci sarebbe più motivo di inimicizia? Conosco storie di rifiuti netti del tutto immotivati, che proprio per questo mi sembrano letterariamente avvincenti. In particolare mi incuriosiscono quei rapporti – tra uomini, tra donne, tra uomini e donne – in cui tutto comincia con il reciproco interesse e il reciproco rispetto. Si sta bene insieme, c’è curiosità, buona disposizione. Sta nascendo se non un’amicizia, una gradevole relazione. Poi cominciano imbarazzi, un po’ di fastidio, all’improvviso un fumo brucia gli occhi e la gola. Qualcosa non funziona più, ma non è facilmente individuabile. Finché un giorno uno dice: basta, preferisco non frequentarti più. E il rapporto sul serio si interrompe. Una vicinanza benevola si trasforma in ostilità a distanza, in un farsi reciprocamente male ogni volta che si può, senza una ragione per cui si trovino le parole. In questo tipo di vicende sospetto che ci sia qualcosa che, se raccontato fino in fondo, ci farebbe fare qualche passo avanti. Forse un nemico è semplicemente qualcuno che si è sottratto per una sorta di sfinimento emotivo alla fatica, alla comnplessità, al piacere, a tutte le ambiguità dell’amicizia.

Elena Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma: Edizioni e/o, 2019, pag. 79-80

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Piacere di apprendere – Elena Ferrante

Di tutti gli anni che ho passato a scuola e all’università ricordo con piacere soltanto quelli delle elementari. Non voglio dire che il resto del mio percorso formativo, fino alla laurea, sia stato una perdita di tempo. Anzi, a scanso di equivoci, desidero sottolineare quanto è stata felice per me, da adolescente, la scoperta del latino e del greco, della filosofia, della matematica, della chimica, della fisica, della geografia e soprattutto della geografia astronomica. Ma la scuola media e poi l’università hanno avuto soltanto la funzione di introdurmi a settori del sapere di cui ignoravo tutto. Ho scoperto discipline. L’orario scolastico diceva: alle otto c’è una materia che si chiama latino, alle nove una che si chiama greco, alle dieci una che si chiama filosofia, e tu la studierai per un certo numero di anni, cinque, tre, anche uno soltanto, Ma non mi è mai sembrato che conoscere il latino o il greco avesse un valore, comportasse per esempio poter leggere le opere di Euripide o Seneca nella lingua in cui erano state scritte. Li consideravo occasione di pura esercitazione scolastica, erano lingue morte il cui studio serviva a ottenere un buon voto, un diploma, un possibile lavoro. Posso dire perciò con serenità che solo dopo la laurea ho cominciato a imparare sul serio. Prima non c’è stato apprendimento, ma solo una continua rispettosa obbediente esercitazione che serviva a occupare posti elevati nella gerarchia della bravura. Io sono stata in genere in cima alla lista dei migliori, eppure sono tutte sbiadite le nozioni che allora memorizzavo per brillare. Non solo in testa non ho più niente, ma mi è rimasta l’impressione di aver studiato moltissimo senza imparare, di aver fatto uno sforzo enorme senza nemmeno un attimo di godimento. Gli anni della scuola elementare invece mi hanno lasciato la memoria nitidissima della meraviglia con cui le ore tra i banchi si trasformavano in precise competenze – saper leggere, saper scrivere, saper fare di conto – ma anche in mille informazioni sussidiarie. Oggi non saprei raccontare in modo dettagliato come prendeva forma quel sentimento di fiero stupore, anche in quel caso la memoria è sbiadita, dovrei inventare aneddoti efficaci, perché non ho niente in testa di veramente accaduto. Ma la meraviglia – la meraviglia di saper leggere, di saper scrivere, di saper trasformare i segni in cose, paesaggi, persone, sentimenti, voci, o viceversa di saper ridurre tutta la realtà, e ogni fantasia, ogni progetto, in segni dell’alfabeto, in cifre – la meraviglia, dico, m’è rimasta e dura vivi- dissima. Di tutti gli anni che sono seguiti ricordo la fatica, l’ansia di far bene, qualche umiliazione, qualche brutto fallimento, parecchi successi, ma mai quella meraviglia compiaciuta. Ho dovuto smettere di essere una studentessa per ricominciare bruscamente a imparare stupendomi. Oggi di nuovo non succede più, ma spero che col tempo vuoto della vecchiaia lo stupore ritorni. 

Elena Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma: Edizioni e/o, 2019, pag. 47-48

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FDUSP – Seleção para Pós-Graduação 2024-2025

Aos interessados em participar do processo seletivo para alunos regulares, a Comissão publicou o seguinte comunicado:

COMUNICADO

A Presidência da Comissão de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da Universidade de São Paulo torna públicas as principais datas para os interessados em se inscrever no processo seletivo de 2024 para Ingresso no PPGD da FDUSP no ano de 2025:

· 28 de março de 2024, 12h: publicação do Edital, pela FUVEST, das provas de línguas (verificar site FUVEST – ATENÇÃO: a FUVEST oferece prova de espanhol para OUTROS Programas; o PPGD NÃO aceita proficiência em espanhol)

· 19 de abril de 2024: publicação do Edital do Processo Seletivo (DOE e site FDUSP)

· 23 e 30 de junho de 2024: provas on-line de proficiência em línguas estrangeiras de alemão, francês e italiano (23/06) e inglês (30/06)

· 04 de agosto de 2024: prova (PRESENCIAL) de conhecimentos jurídicos (para candidatos ao mestrado e outra para candidatos ao doutorado e doutorado direto, dispensados os que sejam mestres em Direito por um PPGD que tenha obtido avaliação 6 ou 7 da CAPES nos dois últimos ciclos de avaliação – 2017 e 2021)

As demais datas de interesse dos candidatos constarão dos referidos Editais.

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Sogno di dottor Sigmund Freud, interprete dei sogni altrui

La notte del ventidue di settembre del 1939, il giorno prima di morire, il dottor Sigmund Freud, interprete dei sogni altrui, fece un sogno.

Sognò che era diventato Dora e che stava attraversando Vienna bombardata. La città era distrutta, e dalle rovine dei palazzi si alzavano polvere e fumo.

Come è possibile che questa città sia stata distrutta? si chiedeva il dottor Freud, e cercava di tenere fermo il seno che era posticcio. Ma in quel momento lo incrociò, sulla Rathausstrasse, Frau Marta, che veniva avanti con la “Neue Frei Presse” stesa davanti a sè.

Oh, cara Dora, disse Frau Marta, ho letto proprio ora che il dottor Freud è tornato a Vienna da Parigi e abita proprio qui, al numero sette della Rathausstrasse, forse le farebbe bene farsi visitare da lui. E così dicendo scostò col piede il cadavere di un soldato.

Il dottor Freud sentì una grande vergogna, e si abbassò la veletta. Non capisco perché, disse timidamente.

Perché lei ha tanti problemi, cara Dora, disse Frau Marta, lei ha tanti problemi come tutti noi, ha bisogno di confidarsi, e, mi creda, niente di meglio del dottor Freud per confidenze, lui capisce tutto delle donne, a volte sembra addirittura una donna, da quanto si immedesima nel loro ruolo.

Il dottor Freud si accomiatò con gentilezza ma con rapidità e riprese la sua strada. Poco più avanti incrociò il garzone del macellaio, che lo guardò con insistenza e gli fece un apprezzamento pesante. Il dottor Freud si fermò, perché avrebbe voluto fare a pugni con lui, ma il garzone del macellaio gli guardò le gambe e gli disse: Dora, tu avresti bisogno di un uomo autentico, invece di essere innamorata delle tue fantasie.

Il dottor Freud si fermò irritato. E tu come lo sai?, gli chiese.

Lo sa tutta Vienna, disse il garzone del macellaio, tu hai troppe fantasie sessuali, lo ha scorperto il dottor Freud.

Il dottor Freud alzò i pugni. Questo era davvero troppo. Lui, il dottor Freud, che aveva fantasie sessuali. Erano gli altri che avevano quelle fantasie, coloro che andavano a fargli le loro confidenze. Lui era un uomo integerrimo, e quel tipo di fantasie era un problema di bambini e disturbati.

Non fare la stupida, rise il garzone del macellaio, e gli dette un buffetto.

Il dottor Freud si ringalluzzì. Dopo tutto era bello essere trattato con familiarità da un virile garzone di macellaio, e dopo tutto lui era Dora, che aveva problemi turpi.

Andò avanti per la Rathausstrasse e arrivò davanti a casa sua. La sua casa, la sua bella casa, non esisteva più, era stata distrutta da un obice. Ma nel giardinetto, che sopravviveva intatto, c’era il suo divano. E sul divano c’era steso uno zotico con gli zoccoli e la camicia di fuori, che russava.

Il dottor Freud gli si avvicinò e lo svegliò. Cosa ci fai qui?, gli chiese.

Lo zotico lo fissò con occhi sgranati. Cerco il dottor Freud, disse.

Il dottor Freud sono io, disse il dottor Freud.

Non mi faccia ridere, signora, rispose lo zotico.

Ebbene, disse il dottor Freud, le confesserò una cosa, oggi ho deciso di assumere le sembianze di una mia paziente, è per questo che sono vestito così, sono Dora.

Dora, disse lo zotico, ma io ti amo. E così dicendo lo abbracciò. Il dottor Freud sentì un grande smarrimento e si lasciò cadere sul divano. E in quel momento si svegliò. Era la sua ultima notte, ma lui non lo sapeva.

A. Tabucchi. Sogni di sogni, Palermo, Sellerio Ed., 1992, pag. 74/76

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Il medico ideale – Dino Buzzati


Mai, mai che un medico dopo una accurata visita ci dica:


“Caro signore, mi dispiace, non andiamo niente bene. Se lei continua così, scusi la sincerità,
ma le do pochi mesi di vita. Perciò è mio dovere parlarle chiaro. Qui si impone un rigoroso regime di
vita.


“Per cominciare, una dieta di ferro: verdure, latte, frutta cotta, carni bianche, sono veleno per
lei. Neanche sentirne parlare. Il suo vitto si baserà sui salumi, la selvaggina, le papriche, le mostarde.
Molto pepe, molto sale. Tutt’al più, qualche insalata di cipolle e peperoni, ma solo di quando in
quando.


“In quanto al bere, mi duole darle una cattiva notizia, ma acqua e succhi di frutta vanno
banditi. Vino, questo sì. E soprattutto whisky. Si rassegni, amico mio. Il whisky è per lei il toccasana.
Ma sì, anche due tre bottiglie al giorno!


“E ora veniamo agli altri aspetti della sua attività quotidiana. Come prima cosa, mai mettersi a
letto prima dell’una, le due di notte. Qualche notte bianca sarebbe l’ideale, ma non pretendo tanto.


“Però il sacrificio più grande, caro signore, è di altro genere. Qui sta la base della guarigione.
E il rimedio è presto detto: donne, donne, donne! non ce ne saranno mai abbastanza! Giorno e notte,
notte e giorno. Bisogna che lei si faccia una ragione. E che ci dia dentro più che può”.


Perché mai un medico simile non esiste?


D. Buzzati, Siamo spiacenti di, Milano, Mondadori, 1999.

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Le piccole cose – Stefano Benni

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Canto dei morti invano – Primo Levi

Il volto della guerra – Salvador Dalì

Sedete e contrattate

A vostra voglia, vecchie volpi argentate.

Vi mureremo in un palazzo splendido

Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco

Purché trattiate e contrattiate

Le vite dei nostri figli e le vostre.

Che tutta la sapienza del creato

Converga a benedire le vostre menti

E vi guidi nel labirinto.

Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,

L’esercito dei morti invano,

Noi della Marna e di Montecassino,

Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:

E saranno con noi

I lebbrosi e i tracomatosi,

Gli scomparsi di Buenos Aires,

I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,

I patteggiati di Praga,

Gli esangui di Calcutta,

Gl’innocenti straziati a Bologna.

Guai a voi se uscirete discordi:

Sarete stretti dal nostro abbraccio.

Siamo invincibili perché siamo i vinti.

Invulnerabili perché già spenti:

Noi ridiamo dei vostri missili.

Sedete e contrattate

Finché la lingua vi si secchi:

Se dureranno il danno e la vergogna

Vi annegheremo nella nostra putredine.

14 gennaio 1985

Primo Levi, Mil sóis, São Paulo: Todavia, 2019, pp. 134

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Il delitto non rende – Giorgio Scerbanenco

Lo strillo della ragazza era previsto, quasi non lo udì neppure, sentì appena il caldo della mano di lei, mentre le strappava la borsetta, poi dette più gas che poté alla moto; dallo specchietto vide la ragazza barcollare per l’urto ricevuto, e la faccia attonita, con la bocca aperta, di una donna che aveva capito quello che avveniva, uno scippo, e stava appunto a bocca aperta, senza gridare, stupefatta di aver capito.

Quando fermò la moto, era già molto lontano. Guardò nella borsetta, e ci trovò esattamente cinquantamila lire, cinque biglietti da diecimila. Non credeva tanto: lei aveva un aspetto modesto, non aveva l’aria di una capace di tenersi tutti quei michelangeli nella borsetta. C’era anche la carta d’identità della ragazza. La scorse rapidamente prima di buttare via la borsetta: Maria Norassi, ventiquattro anni, commessa…

“Maria Norassi, ventiquattro anni, commessa…” ripeté l’agente, scrivendo. “Quanto c’era nella borsetta?”

La fissava, lei disse:

“Cinquantamila lire.”

Non era stata sua l’idea di denunciare lo scippo alla polizia, ma erano accorsi dei passanti, un vigile, l’avevano portata al commissariato.

“Cinquantamila lire,” ripeté l’agente, scrivendo. “Altri valori?”

Lei rispose che non aveva altri valori nella borsetta.

“Mica farsi illusioni,” disse l’agente con affettuosa amarezza, “anche se prendiamo quel mascalzone, non prendiamo certo le cinquantamila lire.”

Lei uscì dal commissariato, e le mani libere, senza borsetta, le davano disagio. Si rese conto d’improvviso che non aveva una lira e che, per arrivare a casa, avrebbe dovuto attraversare a piedi tutta la città.

Arrivare lì, invece, era stato facile. La Mercedes dell’ingegnere non aveva impiegato neppure venti minuti sino al villino accogliente. L’ingegnere aveva ancora un aspetto giovanile, in fondo era stata una cosa meno odiosa e triste di quanto avesse pensato. Era la prima volta che lei faceva una cosa simile, ma l’ingegnere era stato molto gentile e delicato anche nel metterle i cinque biglietti da diecimila nella borsetta. Era uscita non troppo avvilita dal villino per andare al posteggio dei taxi e tornare a casa, e allora era successo il guaio.

Si fermò, dopo un poco che camminava, all’angolo di un viale che dava su un piazzale: era una parte di città sconosciuta per lei. All’angolo c’era un bar tabaccheria, in una vetrinetta erano esposti accendini e pipe di varie qualità. Lei aveva progettato con quelle cinquantamila lire anche di comprare un accendino per Renato. Aveva voglia di piangere, ma a che sarebbe servito? E poi aveva anche voglia di ridere: il delitto non rende.

Riprese a scarpinare.

TG. Scerbanenco, Il Centodelitti, Milano: La nave di Teseo, 2019, p. 58-59

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Le forme dei rumori – Luigi Malerba

Papirone faceva il pittore ma non sapeva mai che cosa dipingere. Diceva che avevano già dipinto tutto e cosí passava le sue giornate davanti alla tela con il pennello in mano senza dipingere niente. Un giorno ebbe l’idea di dipingere i rumori.

– Ogni rumore ha una forma, – diceva Papirone e cosí incominciò a dipingere rombi cubi saette ellissi coni corni e sfumature.

– Certi rumori salgono verso l’alto come colonne, – diceva, – altri si sviluppano a torciglione, altri si espandono come nuvole di fumo, alcuni sono neri, altri rossi, altri bianchi grigi azzurri blu marroni verdi verdastri nerastri grigiastri e via dicendo. Certi rumori sono morbidi e altri sono durissimi come l’acciaio.

Papirone passò dalla pittura alla scultura perché si accorse che, anche se alcuni rumori erano piatti e sottili come la carta, la maggior parte si potevano rappresentare soltanto con delle figure solide, geometriche o no.

Ogni giorno Papirone andava in giro con le orecchie tese e quando sentiva un rumore prendeva appunti sul suo taccuino, ma qualche volta i rumori li faceva lui nel suo studio e poi scolpiva la forma corrispondente.

Un giorno Papirone si mise in testa che doveva prima fare la scultura e poi trovare il rumore corrispondente, perché un vero scultore non deve avere dei modelli ma deve inventare tutto da capo. Scolpì una sfera perfettamente rotonda in ogni parte. Ma non riuscì mai a trovare il rumore corrispondente e continuò a cercarlo per tutta la vita.

L. Malerba, Storiette Tascabili, Torino: Einaudi, 1994, p.147-148

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Lamento dell’occhio – Gianni Rodari

museo di galileo – firenze

Lamento dell’occhio

            L’occhio si lamentava: – Ahimé, ahinoi! Da qualche secolo in qua le cose per me si sono messe male. Ho sempre visto il sole girare intorno alla terra: arriva Copernico, arriva quel Galileo, e dimostrano che sbagliavo, perché è la terra  che gira intorno al sole. Guardavo nell’acqua, la vedevo limpida e pulita: arriva quell’olandese, inventa il microscopio, e scopre che in una goccia d’acqua ci sono più animaletti che al giardino zoologico. Guardo in cielo, in quel punto lassù. È tutto nero, ne sono ben certo. Ci vedo benissimo, io. Ma pare che invece io m’inganni: ti puntano un telescopio in quell’angolo nero, e ci si vedono milioni di stelle. Ormai è dimostrato che io vedo tutto sbagliato. Sarà meglio che me ne vada in pensione.

            Bravo: e dopo, chi guarderà nel microscopio e nel telescopio?

G. Rodari, Il libro degli errori. Torino: Einaudi, 1995, p.105

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FDUSP – Seleção para Pós-Graduação 2023-2024

Aos interessados em participar do processo seletivo para alunos regulares, a Comissão publicou o seguinte comunicado:

COMUNICADO

A Presidência da Comissão de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da Universidade de São Paulo torna públicas as principais datas para os interessados em se inscrever no processo seletivo de 2023 para Ingresso no PPGD da FDUSP no ano de 2024:

30 de março de 2023, 12h: publicação do Edital, pela FUVEST, das provas de línguas (site FUVEST)

19 de abril de de 2023: publicação do Edital do Processo Seletivo (DOE e site FDUSP)

18 e 25 de junho de 2023: provas on-line de proficiência em línguas estrangeiras de francês e italiano (18/06) e alemão e inglês (25/06)

06 de agosto de 2023: prova de conhecimentos jurídicos (para candidatos ao mestrado e outra para candidatos ao doutorado e doutorado direto, dispensados os que sejam mestres em Direito por um PPGD que tenha obtido avaliação 6 ou 7 da CAPES nos dois últimos ciclos de avaliação – 2017 e 2021).

As demais datas de interesse dos candidatos constarão do Edital.

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Lisbona. Rua da Saudade

         I turisti sono rimasti nella strada sottostante, davanti alla cattedrale medievale, in questa collina di Lisbona dove sorge il castello di São Jorge. Avete preso una vostra iniziativa, perché la cattedrale (Sé, in portoghese, contrazione del latino “sede”, perché era anche la sede vescovile) e il castello di São Jorge sono due luoghi obbligatori per il visitatore, due simboli della città, fra i pochi monumenti medievali risparmiati dal terribile terremoto che devastò Lisbona nel 1755. Ma probabilmente li avete già visti da soli o con gli eventuali compagni di viaggio, o li vedrete fra poco, perché ai monumenti obbligatori di una città non ci si può né ci si deve sottrarre. Qui invece, in rua da Saudade, a pochi metri dalla cattedrale, non viene mai nessuno. L’occasionale visitatore di Lisbona non ha nessun motivo di venirci, perché apparentemente non c’è niente che lo giustifichi, ed è per questo che la guida che portate in tasca anche la più minuziosa, sicuramente non ve la segnala.

         Ma ci sono delle ragioni che sfuggono anche alle guide migliori. In questo caso la saudade, cui peraltro è dedicata questa piccola strada. La saudade è parola portoghese  di imperativa traduzione, perché è una parola-concetto, perciò viene restituita in altre lingue in maniera approssimativa. Su un comune dizionario portoghese-italiano la troverete tradotta con “nostalgia”, parola troppo giovane (fu coniata nel Settecento dal medico svizzero Johannes Hofer) per una faccenda così antica come la saudade. Se consultate un autorevole dizionario portoghese, come il Morais, dopo l’indicazione dell’etimo soidade o solitate, cioè “solitudine”, vi darà una definizione molto complessa: “Malinconia causata dal ricordo di un bene perduto; dolore provocato dall’assenza di un oggetto amato; ricordo dolce e insieme triste di una persona cara”. È dunque qualcosa di straziante, ma può anche intenerire, e non si rivolge esclusivamente al passato, ma anche al futuro, perché esprime un desiderio che vorreste si realizzasse. E qui cose si complicano perché la nostalgia del futuro è un paradosso. Forse un corrispettivo più adeguato potrebbe essere il disìo dantesco che reca con sè una certa dolcezza, visto che “intenerisce il core”. Insomma, come spiegare questa parola?

         È proprio per questo che allontanandovi di pochi metri siete venuti qui. Perchè dall’alto di questa piccola strada lo sguardo abbraccia tutta la città e l’enorme foce del Tago. E poco più avanti l’Oceano, e l’infinito orizzonte. L’ignoto portoghese che dette il nome a questa strada certamente aveva guardato bene il panorama. Un grande linguista ha detto che è impossibile spiegare il senso della parola formaggio a una persona che non ha mai assaggiato un formaggio. Per capire cos’è la saudade, dunque, niente di meglio che provarla direttamente. Il momento migliore è ovviamente il tramonto, che è l’ora canonica della saudade, ma si prestano bene anche certe sere di nebbia atlantica, quando sulla città scende un velo e si accendono i lampioni. Lì, da soli, guardando questo panorama davanti a voi forse vi prenderà una sorta di struggimento. La vostra immaginazione, facendo uno sgambetto al tempo, vi farà pensare che una volta tornati a casa e alle vostre abitudini vi prenderà la nostalgia di un momento privilegiato della vostra vita in cui eravate in una bellissima e solitaria viuzza di Lisbona a guardare un panorama struggente. Ecco, il gioco è fatto: state avendo nostalgia del momento che state vivendo in questo momento. È una nostalgia al futuro. Avete sperimentato di persona la saudade.

A.Tabucchi, Viaggi e altri viaggi. Milano: Feltrinelli, 2010, p.168-170

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La fine del mondo – Dino Buzzati

Guernica – Pablo Picasso

Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città; si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase immobile come un immenso baldacchino della malora. Sembrava di pietra e non era pietra, sembrava di carne e non era, pareva anche fatto di nuvola, ma nuvola non era. Era Dio; e la fine del mondo. Un mormorio che poi si fece mugolio e poi urlo, si propagò per i quartieri, finché divenne una voce sola, compatta e terribile, che saliva a picco come una tromba.

Luisa e Pietro si trovavano in una piazzetta, tepida a quell’ora di sole, recinta da fantasiosi palazzi e parzialmente da giardini. Ma in cielo, a un’altezza smisurata, era sospesa la mano. Finestre si spalancavano tra grida di richiamo e spavento, mentre l’urlo iniziale della città si placava a poco a poco; giovani signore discinte si affacciavano a guardare l’apocalisse. Gente usciva dalle case, per lo più correndo, sentivano il bisogno di muoversi, di fare qualcosa purchessia, non sapevano però dove sbattere il capo. La Luisa scoppiò in un pianto dirotto: “Lo sapevo ” balbettava tra i singhiozzi” che doveva finire così… mai in chiesa, mai dire le preghiere… me ne fregavo io, me ne fregavo, e adesso… me la sentivo che doveva andare a finire così!…”. Che cosa poteva mai dirle Pietro per consolarla? Si era messo a piangere pure lui come un bambino. Anche la maggior parte della gente era in lacrime, specialmente le donne. Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n’andavano lieti come pasque: “La è finita, per i furbi, adesso!” esclamavano gioiosamente, procedendo di buon passo, rivolti ai passanti più ragguardevoli. “L’avete smessa di fare i furbi, eh? Siamo noi i furbi adesso!” (e ridacchiavano). “Noi sempre minchionati, noi creduti cretini, lo vediamo adesso chi erano i furbi!” Allegri come scolaretti trascorrevano in mezzo alla crescente turba che li guardava malamente senza osare reagire. Erano già scomparsi da un paio di minuti per un vicolo, quando un signore fece come l’atto istintivo di gettarsi all’inseguimento, quasi si fosse lasciata sfuggire un’occasione preziosa: “Per Dio!” gridava battendosi la fronte “e pensare che ci potevano confessare.” “Accidenti!” rincalzava un altro “che bei cretini siamo stati! Capitarci così sotto il naso e noi lasciarli andare!” Ma chi poteva più raggiungere i vispi fraticelli?

Donne e anche omaccioni già tracotanti, tornavano intanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I confessori più in gamba erano spariti – si riferiva – probabilmente accaparrati dalle maggiori autorità e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravigliosamente un certo loro prestigio benché si fosse alla fine del mondo; chissà, forse, si considerava che mancassero ancora dei minuti, delle ore; qualche giornata magari. In quanto ai confessori rimasti disponibili, si era formata nelle chiese una tale spaventosa calca, che non c’era neppure da pensarci. Si parlava di gravi incidenti accaduti appunto per l’eccessivo affollamento; o di lestofanti travestiti da sacerdoti che si offrivano di raccogliere confessioni anche a domicilio, chiedendo prezzi favolosi. Per contro giovani coppie si appartavano precipitosamente senza più ombra di ritegno, distendendosi sui prati dei giardini, per fare ancora una volta l’amore. La mano intanto si era fatta di colore terreo, benché il sole splendesse, e faceva quindi più paura. Cominciò a circolare la voce che la catastrofe fosse imminente; alcuni garantivano che non si sarebbe giunti a mezzogiorno.

In quel mentre nella elegante loggetta di un palazzo, poco più alta del piano stradale (vi si accedeva per due rampe di scale a ventaglio), fu visto un giovane prete. La testa tra le spalle, camminava frettolosamente quasi avesse paura di andarsene. Era strano un prete a quell’ora, in quella casa sontuosa popolata di cortigiane. “Un prete! un prete!” si sentì gridare da qualche parte. Fulmineamente la gente riuscì a bloccarlo prima che potesse fuggire. “Confessaci, confessaci!” gli gridavano. Impallidì, fu tratto a una specie di piccola e graziosa edicola che sporgeva dalla loggetta a guisa di pulpito coperto; pareva fatta apposta. A decine uomini e donne formarono subito grappolo, tumultuando, irrompendo dal basso, arrampicandosi su per le sporgenze ornamentali, aggrappandosi alle colonnine e al bordo della balaustra; non era del resto una grande altezza.

Il prete cominciò a raccogliere confessioni. Rapidissimo, ascoltava le affannose confidenze degli ignoti (che ormai non si preoccupavano se gli altri potevano udire). Prima che avessero finito, tracciava con la destra un breve segno di croce, assolveva, passava immediatamente al peccatore successivo. Ma quanti ce n’erano. Il prete si guardava intorno smarrito, misurando la crescente marea di peccati da cancellare. Con grandi sforzi anche la Luisa e Pietro si fecero sotto, guadagnarono il loro turno, riuscirono a farsi ascoltare. “Non vado mai a messa, dico bugie…” gridava a precipizio la giovanetta per paura di non fare in tempo, in una frenesia di umiliazione” e poi tutti i peccati che lei vuole… li metta pure tutti… E non è per paura che son qui, mi creda, è proprio soltanto per desiderio di essere vicina a Dio, le giuro che…” ed era convinta di essere sincera. ” Ego te absolvo…” mormorò il prete e passò ad ascoltare Pietro.

Ma un’ansia indicibile cresceva negli uomini. Uno chiese: “Quanto tempo c’è al giudizio universale?”. Un altro, bene informato, guardò l’orologio. “Dieci minuti” rispose autorevolmente. Lo udì il prete che di colpo tentò di ritirarsi. Ma, insaziabile, la gente lo tenne. Egli pareva febbricitante, era chiaro che il fiotto delle confessioni non gli arrivava più che come un confuso mormorio privo di senso; faceva segni di croce uno dopo l’altro, ripeteva “Ego te absolvo…” così, macchinalmente.

“Otto minuti!” avvertì una voce d’uomo dalla folla. Il prete letteralmente tremava, i suoi piedi battevano sul marmo come quando i bambini fanno i capricci. “E io? e io?” cominciò a supplicare, disperato. Lo defraudavano della salvezza dell’anima, quei maledetti; il demonio se li prendesse quanti erano. Ma come liberarsi? come provvedere a se stesso? Stava proprio per piangere. “E io? e io?” chiedeva ai mille postulanti, voraci di Paradiso. Nessuno però gli badava.

Dino Buzzati, La boutique del mistero, Mondadori, Milano, 1992, pag.82-85

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Il racconto insegna – Elena Ferrante

C’è una vecchissima funzione della letteratura che col tempo ha perso terreno, probabilmente per la sua pericolosa vicinanza alla sfera politica e quella etica. Mi riferisco all’idea che un testo debba avere tra i suoi compiti quello di istruire. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo prudentemente preferito convincerci che piacere o godimento di un testo facessero tutt’uno col suo stile. Cosa verissima: un testo è fatto di parole e le parole più sono selezionate e combinate bellamente, più seducono lettrici e lettori. Ma le parole, dilettando, danno forma a visioni del mondo, penetrano i nostri corpi, vi dilagano perturbandoli e li modificano educandone lo sguardo, i sentimenti, persino le posture. Lo stile insomma, oltre che dar piacere, secondo una lunghissima tradizione smuove e insegna. Noi ci innamoriamo di un testo anche per come esso inavvertitamente ci istruisce cioè per la ricchezza delle esperienze vive e vere che passano da chi scrive direttamente nella vita di chi legge. Qui non si tratta più soltanto di raffinata selezione del lessico, di efficaci metafore, di memorabili similitudini. Qui conta in quale modo chi scrive si inserisce nella tradizione letteraria non solo con la sua abilità nell’orchestrare parole, ma con le sue concettualizzazioni e col suo personalissimo bagaglio di cose urgenti da raccontare. Il talento linguistico individuale agisce come una rete stretta che afferra esperienze quotidiane, le manipola fantasticamente e intanto le congiunge alle questioni fondamentali della condizione umana. Lo stile, dunque, è davvero tutto, ma nel senso che tanto più è potente quanto più ha in sé materia per dare lezioni complessive di vita. Si badi, però, non alludo ai romanzi che affrontano temi cruciali coi mezzi della letteratura: la fame nel mondo, la minaccia di nuovi fascimi, il terrorismo, i conflitti religiosi, il razismo, i diversi modi di viere la sessualità, la digitalizzazione e i suoi effetti, etc. Non ho niente naturalmente contro chi lo fa, anzi, sono libri che leggo volentieri. Si scelgono temi di rilevanza mediatica, si imbastisce una storia e la si mette per iscritto con abilità. Si infoltiscono racconti avvincenti con dati scientifici o sociologici sulle svariate catastrofi che minacciano il pianeta. Si divulgano ideologie, si sostengono tesi, si affiancano battaglie politiche. Ma quando parlo di istruzione non è a quel tipo di opere che mi riferisco, non penso a una letteratura didattica o moraleggiante. Cerco di dire che ogni opera di qualche valore è anche trasmissione di conoscenza di prima mano, perciò impensata, sorprendente e soprattutto difficilmente riducibile ad altra forma di conoscenza che non sia quella specificamente letteraria. Parlo di apprendimento godurioso, di apprendimento che ci modifichi intimamente, anche drammaticamente, sotto l’urto di parole tanto lucide quanto appassionate.

Elena Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma: Edizioni e/o, 2019, pag. 107-108

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Il matto e il savio

Anni fa viveva a Erto una vecchietta con due figli maschi. Il tempo di questa storia è quello subito dopo l’ultima guerra. La donna allora aveva circa settant’anni, i figli trentanove e trentasei. Uno dei due, Zuliàn, il più vecchio, era una persona a posto. Lavoratore infaticabile, riusciva a fare il boscaiolo con l’impresa De Antoni e, nello stesso tempo, accudire due mucche e il maiale che allevava ogni anno per farne salami. Zuliàn non beveva, non fumava, non aveva donne, nemmeno una fidanzata. Non si concedeva il minimo lusso, neppure un paio di pantaloni nuovi per le feste. Era lui che manteneva la madre e il fratello poiché quest’ultimo, come spesso accade anche nelle migliori famiglie, era pecora nera. A differenza di Zuliàn, il fratello Zancàn beveva, fumava e andava a donne. Non lavorava mai, non recava il minimo apporto in famiglia. Nemmeno accendeva il fuoco nel camino. Quando beveva diventava cattivo e, invece del fuoco, accendeva risse nelle osterie. Più volte era tornato a casa pesto e sanguinante, ma qualche destro lo metteva a segno pure lui. D’estate, mentre il fratello si spaccava la schiena a falciare i prati dopo otto ore di bosco, Zancàn bighellonava lungo la strada del paese in compagnia di altri due sciagurati par suo. Se gli mancavano i soldi per bere, minacciava la madre, la quale, spaventata, gli sborsava un po’ della sua già scarsa pensione di vedova. Ma, occorre dirlo, l’uomo non aveva la testa del tutto a posto. A volte dava in escandescenze con vere e proprie manifestazioni di pazzia, che lo avevano portato a trascorrere brevi periodi nel manicomio di Feltre. Zuliàn portava pazienza perché capiva ma, soprattutto, perché voleva bene al fratello sfortunato. Solo una volta che minacciava la madre armato di bastone, lo stese con un diretto al mento. Un giorno, verso i primi di aprile, Zuliàn morì. Mentre con altri operai caricava piante su un vecchio camion BL, un tronco di quattro metri rotolò giù dal cassone e lo schiacciò. Dopo il funerale, Zancàn e la madre tornarono a casa. La vecchietta, nonostante il dolore, era terrorizzata all’idea di doversela vedere da sola con il figlio scriteriato. Nella sua testa indebolita s’agitavano scene drammatiche e il pensiero andava ai patimenti che avrebbe dovuto subire d’ora in avanti. Voleva morire e, nello stesso tempo, non voleva morire perché il figlio disgraziato sarebbe rimasto solo, in balìa di se stesso e della cattiveria altrui. Ma tutto questo non accadde. Il pazzo, dopo la morte del fratello, si comportò esattamente al contrario di quello che tutti si aspettavano. Diventò uomo serio, laborioso, irreprensibile. Sostituì degnamente Zuliàn in tutte le faccende di casa. Abbandonò i vizi e mollò le compagnie negative. Si occupò del bestiame e dei boschi e fece anche di più: dissodò dei terreni incolti per ricavarne campi di patate e un orto. Lavorava dall’alba al tramonto senza battere ciglio. La vecchia pensò a un miracolo e ringraziò Dio. La gente, invece, commentava il fatto con accenni di incredulità e stupore. Nell’osteria di Pilìn, durante una discussione sul cambiamento di Zancàn, Celio, famoso per i suoi silenzi interrotti soltanto da battute sarcastiche, esclamò: «Quando il savio viene a mancare, il matto fa giudizio». Zancàn non camminò mai più sui sentieri della perdizione e, fino all’ultimo giorno, fu esempio di rettitudine per tutti.

Mauro Corona, Nel legno e nella pietra, Milano, Mondadori, 2014, pp 23-24

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I bravi pompieri morti di sonno

 Foresta Amazzonica – Sebastião Salgado

Glossário:

Bradipo: bicho-preguiça;

Ghiri: esquilos (arganaz)

Marmotte: marmotas

Talpe: toupeiras

Criceti: porquinhos-da-índia

Armadillo: tatu

Baribal: urso-negro

Scoiattoli: esquilos

Lumaca: lesma

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Un miliardo di anni fa, in una foresta del Brasile, siccome gli incendi erano molto frequenti ( una foresta, dopo tutto non è che un grandissimo deposito di legname) era creato un corpo di pompieri. Questo corpo era comandato da tale Bra Dipo e aveva come componenti vari Ghi ri, Mar Motte, Tal pe, Cri Ceti e altri simili animali tutti famosi per la loro propensione alla pigrizia e al sonno. Adesso non venite a chiedermi perché questi animali fossero stati nominati pompieri a preferenza di tanti altri molto più svegli e più rapidi di loro: onestamente, proprio non lo so. Un miliardo di anni sono un bel po’ di anni; chissà come andavano realmente le cose in quel tempo.

Ora una di quelle sere, Bra Dipo, il comandante, appunto, dei pompieri, si apprestava ad andare a nanna. Il nostro povero Bra Dipo aveva dormito soltanto venti ore su ventiquattro e si sentiva addirittura morire dal sonno. A questo punto bisogna sapere che Bra Dipo aveva una sua maniera piuttosto buffa di dormire: si avvinghiava con gli unghioni delle quattro zampe ad un ramo molto alto e poi si addormentava così penzolante, con la schiena rivolta in basso, la pancia in alto. In questa posizione Bra Dipo dormiva di solito ventitré ore filate, ogni giorno. La sola ora di veglia, la passava nutrendosi di fiori e di foglie che strappava dall’albero al quale stava appeso. Molto spesso, però, aveva tanto sonno che pur masticando si assopiva, con qualche foglia e qualche fiore ancora in bocca.

Perché Bra Dipo aveva dormito di meno quella notte? Perché c’era stata una chiamata per un incendio. Qualcuno aveva gridato il suo nome, una sola volta, però, e poi più nulla. Bra Dipo, credendo di avere sentito male, aveva aspettato tre ore la conferma della chiamata, che però non era venuta. Alla fine aveva pensato a qualche scherzo (anche nelle foreste del Brasile ci sono degli sfaccendati che si divertono a chiamare i pompieri, senza alcun motivo, tanto per il gusto di vederli accorrere) e aveva assunto la già descritta posizione del sonno, testa in giù e zampe in su. Senonché, ad un tratto, l’albero al quale stava aggrappato cominciò a oscillare e traballare come per un terremoto. Intanto, tra una scossa e l’altra, una vociona cavernosa chiamava: “Bra Dipo, Bra Dipo.”

Bra Dipo conosceva questa voce: era quella di Bari Bal, orso piuttosto grosso che, nella foresta, assolveva la funzione quanto mai delicata di messaggero per il corpo dei pompieri, cioè, in pratica faceva le veci del nostro telefono per le chiamate del pubblico. Bari Bal era un tipo, a dir poco, molto posato: cadeva in letargo verso ottobre e si svegliava verso aprile; tutto questo con grave pregiudizio del suo mestiere. Così, anche nel caso di Bari Bal, viene spontanea, anzi irresistibile la domanda: “Ma perché affidare un incarico in cui la prontezza e la rapidità sono tutto, ad un individuo simile che se la dormiva della grossa sei mesi all’anno?” E sono costretto a darvi la solita risposta: roba di un miliardo di anni or sono, va’ a sapere.

Bra Dipo, irritato per essere stato chiamato proprio nel momento in cui stava per andare a letto, chiese con malgarbo: “Ma Bari Bal, si può sapere che cosa ti succede? Poco è mancato che mi hai fatto cascare dal mio ramo.”

“C’è un incendio gravissimo in località ‘Sogni Beati’.”

Bra Dipo stava per ribattere: “E che c’entro io?” ma si ricordò a buon punto di essere il comandante dei pompieri e domandò: “ ‘Sogni Beati’, e che roba è?”

“Ma lo sai benissimo: un albero di lusso, con piscina, golf, bowling, cavalcatoio, sala da ballo, eccetera eccetera.”

“Ma di’ un po’, sei tu che tre ore fa mi hai chiamato?”

“Sì, ero io.”

“E allora perché non hai insistito?”

Bari Bal rispose un po’ imbarazzato: “Beh, ad un tratto mi è venuto sonno, si sa, con questo caldo, e allora ho schiacciato un pisolino.”

“A proposito, chi te l’ha detto dell’incendio? Non mi dirai che sei stato a ‘Sogni Beati’, tanto non ci credo.”

“Infatti non ci sono stato. Me l’ha detto Arma Dillo.”

“Quello lì? E ha visto l’incendio coi suoi occhi?”

“Credo proprio di sì.”

“Dov’è Arma Dillo?”

“È andato a dormire.”

Bra Dipo esitò. Da una parte la voce del dovere gli diceva che doveva andare in tutti i casi a vedere che cosa fosse successo a ‘Sogni Beati’; dall’altra… beh dall’altra, quasi quasi, stava già addormentandosi. Finalmente, il dovere prevalse. Bra Dipo disse: “Beh, bisogna andare. Quanti chilometri ci sono fino a ‘Sogni Beati’?”

“Circa centro.”

“Capirai!”

Così, dopo molte esitazioni e stiracchiamenti, il corpo dei pompieri della foresta si mise in marcia per andare a spegnere l’incendio che stava distruggendo il motel più lussuoso del Brasile. Strada facendo, come avviene quando i pompieri vanni di fretta, fuori dai cespugli del sottobosco spuntarono molte Tal Pe, Ghi Ri, Mar Motte, Cri Ceti, Sco Iattoli e altri animali notoriamente dormiglioni, anche loro, chissà perché, arruolati come pompieri al posto di tanti altri più adatti di loro. La compagnia ogni tanto si fermava in una radura e, subito, tutti quanti si appisolavano. Bra Dipo, nel quale il senso del dovere lottava contro una violenta inclinazione al sonno, provò ad arringarli a metà strada: “Ragazzi, ma vi rendete conto che non è tempo di dormire ma di agire? Che gli incendi non aspettano noi ma divampano per conto loro? Che d’ora in poi dobbiamo diventare praticamente insonni? E dunque gridate con me: evviva la veglia, abbasso il sonno.” Così proclamò con voce tonante; ma sopraffatto dal sonno, a metà frase gli si spezzò in bocca la parola “veglia”. Disse: “Ve…”, e poi si addormentò di colpo cascando piegato sul parapetto della tribuna dalla quale parlava. Al vedere il loro comandante russare in piedi, tutti i pompieri, senza esitazione, lo imitarono. Cosa vuol dire essere disciplinati!

Dormirono qualche cosa come un paio di settimane e poi ripresero la marcia verso “Sogni Beati”. Ogni giorno facevano una lunga siesta che alla fine quasi si saldava alla dormita notturna, con il solo intervallo di un’ora o poco più dedicato al cammino. Naturalmente c’era chi dormiva di più, e chi di meno. Alcuni dormivano con un occhio solo; altri dormivano, non si sa come, camminando: infine Bra Dipo aveva inventato un suo sonno personale: dormiva a pezzi. Cioè, a turno, faceva dormire una parte del proprio corpo, mentre tutto il resto rimaneva sveglio; per esempio, ora una zampa e ora le orecchie, ora la coda e ora la gola, ora la schiena e ora la pancia. Sento già qualcuno domandare: e il cervello? Ebbene, anche questa volta non so darvi una risposta precisa. Come ho già detto, tutto questo avveniva un miliardo di anni fa; e poi chi può sapere che cosa succede nella testa di un dormiglione come Bra Dipo, oggi come nel passato?

Basta, dopo un mese circa di marcia, durante la quale molti altri pompieri cioè Mar Motte, Ghi Ri e Tal Pe si aggregarono alla spedizione, chi credete che Bra Dipo e i suoi compagni incontrassero in una radura di foresta? Nessun altro che Arma Dillo, presunto testimone oculare della catastrofe di “Sogni Beati”. Tutti, naturalmente, si affollarono intorno ad Arma Dillo, gridando: “Arma Dillo, dillo come sono veramente andate le cose, dillo dillo, tu che ci sei stato e hai visto tutto.” E Arma Dillo, candidamente: “Io, a dire la verità, a ‘Sogni Beati’ non ci sono stato. Dell’incendio mi ha informato… Lu Maca.”

A questa risposta, tutti rimasero costernati. Lu Maca, animale lentissimo come tutti sanno, con ogni probabilità ci aveva messo alcuni anni a percorrere i cento chilometri che ci volevamo per arrivare a “Sogni Beati”; così era chiaro che il corpo dei pompieri Bra Dipo sarebbe arrivato al luogo del disastro a incendio non soltanto bell’e finito ma anche bell’e dimenticato. Eppure, come disse subito Bra Dipo, bisognava andare lo stesso. “Se non altro,” soggiunse, “per portare a quella povera gente rimasta senza casa il conforto della nostra solidarietà.”

Così la marcia riprese e senza volerci impacciare in ulteriori descrizioni, diciamo pure che, qualche mese dopo l’incontro com Arma Dillo, i pompieri arrivarono finalmente a “Sogni Beati”. Si aspettavano di vedere il desolato panorama di un incendio che era stato descritto come furibondo e totale; furono invece molto meravigliati scoprendo che dell’incendio non c’era alcuna traccia; e che in luogo degli eleganti e numerosi bungalow del motel di lusso, adesso sorgeva un immenso recinto quadrato, senza porte e senza finestre con una torre di guardia ad ogni angolo. Non si vedeva nessuno, non si sentiva alcun rumore. Forse, come disse Bra Dipo, gli antichi abitanti del motel stavano chiusi dentro quell’enorme quadrilatero; ma la cosa era tutt’altro che sicura.

Bra Dipo, cercando di superare lo sconcerto, disse: “Sono passati cinque anni, è evidente, hanno provveduto a ricostruire il motel.” Bari Bal espresse il sentimento comune: “Mica l’hanno ricostruito tanto bene. Era molto meglio prima. Vuoi mettere.” Una delle Mar Motte interloquì: “Prima era davvero un sogno beato. Adesso mi pare un incubo.”

Arma Dillo disse conciliante: “Sempre meglio che niente, però.”

Bra Dipo riassunse la situazione in questo modo: “Non soltanto l’incendio è stato domato; ma l’edificio è stato ricostruito, sia pure secondo la moda attuale sulla quale peraltro ci sarebbe molto da dire. Ma, come dice il proverbio: tutti i gusti sono gusti. Piace a loro, e noi non possiamo che inchinarci.”

La vocina di un Cri Ceto gridò improvvisamente: “Ma chi vi dice che gli piace? Avete almeno parlato con quelli che vi abitano?”

Obiezione giustissima. Furono tosto inviate delle staffette a fare il giro dell’edificio e a interrogare, se era possibile, gli abitanti. Ci misero alcuni giorni, perché, come dissero poi, più di una volta, forse per suggestione di quella monotonia, si appisolarono. Comunque, la loro risposta fu perentoria: non c’era anima viva su nessuno dei quattro lati del recinto. Probabilmente, gli abitanti, se ce n’erano, stavano dentro il recinto. Ma, a proposito, come avevano fatto ad entrarci?

Bra Dipo si grattò la testa e poi disse: “Secondo me, gliel’hanno costruito addosso. Un po’ come se domani un sarto cucisse un vestito addosso ad un cliente.”

A questo punto la storia si imbroglia. Sfido io, roba di un miliardo di anni fa! Chi dice che i pompieri si sbandarono, tornarono ai lunghi sonni nella foresta. Ma c’è anche chi dice che Bra Dipo sarebbe invece rimasto a “Sogni Beati”, appeso ad un albero della foresta che circonda d’ogni parte l’immenso recinto. Immerso in un sonno senza fine, aspeterebbe l’inevitabile incendio dell’ermetico quadrilatero. Eh già, un incendio presto o tardi non potrà non scoppiare; e allora Bra Dipo questa volta non vuole essere preso alla sprovvista.

Alberto Moravia, Storie della preistoria, Milano, Bompiani, 1989, pp 76-82

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Parole Sporche – Luigi Malerba

Ottorino aveva il vizio di dire le parolacce. Le diceva a tavola mentre mangiava, per la strada, a scuola, la mattina, il pomeriggio, la sera, quando pioveva, quando c’era il sole, al mare, in montagna e una volta gli scappò una parolaccia anche in chiesa mentre il prete diceva la messa. Quando imparava una parolaccia nuova Ottorino la segnava su un quadernetto per non dimenticarla. Faccio la collezione, diceva alla madre. Gli altri bambini facevano la collezione delle figurine o dei francobolli e lui faceva la collezione delle parolacce.

Ottorino era un bambino molto buono e gentile e studioso. Studiava geometria e aritmetica, storia e geografia. Ma ogni tanto fra un segmento e un angolo retto infilava una parolaccia. Oppure ne metteva una fra Cavour e Napoleone, o nel bel mezzo della Pianura Padana o sulla cima del Monte Bianco che, come si sa, è il monte più bianco d’Europa. I maestri della scuola mandarono a chiamare la madre e le dissero che così non poteva andare avanti. Un giorno Ottorino disse una parolaccia proprio alla fine della poesia di Natale.

La mamma di Ottorino non ne poteva più. Se uno sporcaccione, gli diceva, ma il bambino incominciò a dire le parolacce anche di notte durante il sonno. La mamma di Ottorino pensava che le parole si formano in bocca e siccome nella bocca di Ottorino si formavano tante parole sporche, decise di lavarla. Gli lavò la bocca con il sapone da bucato. Gli riempì tutta la bocca con la schiuma, gliela ripulì e risciacquò a fondo, e Ottorino piangeva e piangendo ingoiò anche un po’ di sapone. Alla fine però la bocca era pulitissima.

Da quel giorno Ottorino non disse più parole sporche, ma non disse nemmeno quelle pulite, non diceva più niente, non parlava più.

– Parla, Ottorino, dimmi qualcosa, – lo supplicava la madre disperata.

Ma il bambino taceva, continuava a tacere sia di giorno che di notte.

La povera donna era molto pentita di avergli lavato la bocca con il sapone e provò a dargli delle caramelle, dei gelati, dei dolci. Non servirono a niente. Provò a raccontargli delle favole per farlo divertire, ma Ottorino si divertiva e continuava a tacere.

Una sera prima di andare a letto la madre di Ottorino prese il quaderno delle parolacce e incominciò a leggerlo. Per molte sere di seguito gli lesse le parolacce del quaderno e andava fino a quando Ottorino si addormentava.

Finalmente una sera, mentre gli occhi gli si chiudevano per il sonno, il bambino aprì la bocca e disse “merda”. La madre pianse per la gioia e il giorno dopo chiamò tutti gli amici e parenti per festeggiare Ottorino che si era rimesso a parlare.

Luigi Malerba, Storiette tascabili, Torino, Einaudi, 1994, pp 84-85

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Chi vince, chi perde – Elena Ferrante

Non mi piace la catalogazione degli esseri umani in vincenti e perdenti. O forse non la capisco. Penso alla simbologia che serve a identificare chi ha vinto. Il denaro, innanzitutto, vale a dire la possibilità di acquistare oggetti di lusso, il gusto conseguente di esibirli come prova della propria superiorità. O l’esercizio di un potere, il ricorso a gesti minimi per ottenere ciò che ai comuni mortali costa fatica e noie. O quella sorta di nobiltà che deriva dalla fama mediatica, un sangue blu della notorietà che assicura il privilegio di non doversi guadagnare ogni volta l’attenzione degli altri, di essere riconosciuta con entusiasmo al primo sguardo. O la messa in scena permanente della felicità, corollario d’obbligo, visto che se si possiede denaro in abbondanza, se si esercita potere, se si gode dello stato di vip, non si può essere che felici. Senonché tutti i tratti del vincente si rivelano presto di scarsa verità, e soprattutto precari. Denaro, potere, fama, felicità fanno presto a mettere crepe svelando la loro inconsistenza. E ogni volta che la figura di chi ha vinto frana riconducendo l’apparenza di una qualche vittoria alla sostanza del fallimento, ecco che frana anche quella del perdente, espressione con cui si classifica la persona appunto che non può esibire altro che lo stato dello sconfitto: niente beni di gran lusso, niente potere, nessuna fama, senso di infelicità che deriva dall’impressione di aver fallito. Forse il vero spettro in agguato dietro la classificazione in vincenti e perdenti è proprio la paura del fallimento. Da ragazza era la cosa che temevo di più. Fallire a scuola, fallire nella conquista di un lavoro, fallire in una qualsiasi prova, ginnica o di matematica. Mettevo un impegno sfiancante in tutto ciò che avesse anche solo l’apparenza di una gara perché intuivo che un fallimento tira l’altro, nasce la lista dei buoni e dei cattivi, e quando finisci in quella dei cattivi diventa arduo passare in quella dei buoni. Ho impiegato parecchio tempo a capire che queste catalogazioni sono tanto crudeli quanto arbitrarie. Esse fanno finta che non esistano le disuguaglianze socioeconomiche, le discriminazioni sessiste e razziste, il conseguente colpevolissimo sciupio di intelligenze. Stiliamo classifiche senza tener conto del caso: il luogo di nascita, la famiglia d’origine, la disparità delle occasioni, etc. Le condizioni di partenza sono insomma troppo diverse ancora oggi, persino in questa parte di mondo cosiddetto avanzato, per pensare a gare senza trucchi. Per quel che mi riguarda, se potessi, cancellerei concetti come fallire, vincere, perdere, che allo stato attuale del mondo sono privi di qualsiasi fondamento oggettivo. Se proprio necessario, mi limiterei a gare come quelle progettate da Alice nel Paese delle meraviglie. Lì non si perde, tutti vincono e non c’è mai fallimento.

Elena Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma: Edizioni e/o, 2019.

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FDUSP – Seleção para Pós-Graduação 2022-2023

Aos interessados em participar do processo seletivo para alunos regulares, a Comissão acaba de publicar o seguinte comunicado:

COMUNICADO

A Presidência da Comissão de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da Universidade de São Paulo torna públicas as principais datas para os interessados em se inscrever no processo seletivo de 2022 para Ingresso no PPGD da FDUSP no ano de 2023:

12 de abril de 2022: publicação do Edital

05 e 12 de junho de 2022: provas on-line de proficiência em línguas estrangeiras

31 de julho de 2022: prova on-line de conhecimentos jurídicos (para candidatos ao mestrado e outra para candidatos ao doutorado e doutorado direto, dispensados os que sejam mestres em Direito por um PPGD que tenha obtido avaliação 6 da CAPES nos dois últimos ciclos de avaliação – 2013 e 2017).

As demais datas de interesse dos candidatos constarão do Edital.

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I musei italiani

La scala elicoidale all’ingresso dei Musei Vaticani

Il termine museo deriva dalla parola Muse, le divinità che, secondo la mitologia greca e romana, personificavano le aspirazioni artistiche ed intellettuali; il Tempio delle Muse (il museo) era, in origine, il luogo in cui veniva impartita l’educazione e si promuoveva la cultura. Nel corso dei secoli, le raccolte d’arte sono sempre state di proprietà della nobiltà: infatti, molti musei italiani sono nati dalle raccolte dei grandi signori rinascimentali e poi sono stati incrementati con successivi acquisti o donazioni.

In Italia sono presenti oltre 3000 musei e raccolte d’arte (sia pubbliche che private), oltre a fondazioni, istituzioni e monumenti divenuti istituzioni museali, ovvero castelli, chiese, aree archeologiche e palazzi. Esistono diversi tipi di musei: archeologici, storici, etnologici, antropologici, scientifici o tecnici. I numerosi musei d’arte solitamente sono specializzati per periodi (arte etrusca, arte medievale, arte moderna) e per forme d’arte (disegni e stampe, scultura, pittura). Oltre ai più “classici” (archeologici, storici, artistici e scientifici), esistono anche musei specializzati, interamente dedicati ad un tema, come il cinema, la ceramica, l’automobile, sino ad arrivare ai temi più curiosi come il cappello, la bilancia o il presepio. Per chi ama la storia, la letteratura e l’arte, sono aperte al pubblico numerose Case-Museo, ovvero le case che hanno dato i natali, ad alcune delle più importanti personalità: da Pirandello a D’Annunzio, da Leonardo Da Vinci a Giotto. Molti dei principali musei italiani sono situati nelle grandi città protagoniste della storia e dell’arte italiana ed internazionale, come Milano, Torino, Roma, Urbino, Bologna e Firenze, ma non bisogna sottovalutare l’importanza di tutte le altre strutture museali situate in provincia.

Tra i più celebri musei vi sono: Galleria degli Uffizi di Firenze, la Galleria Borghese di Roma, i Musei Vaticani ( che compongono forse la raccolta privata più cospicua del mondo), la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia (il più importante museo italiano dedicato all’arte europea ed americana), il Museo della Scienza e della Tecnica Leonardo Da Vinci di Milano, il Museo Egizio di Torino e molti altri ancora.

Caccia ai Tesori – Corso di lingua e civiltà italiana per stranieri, Loescher, Torino, 2016 – pag. 21

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Novidade – Preparatório para proficiência em grupo

INFORMAÇÕES:

Público: Candidatos aos exames de proficiência, exigidos para ingresso na Pós-Graduação, Mestrado ou Doutorado, na área do Direito.

Objetivo Geral: O curso tem como fim específico o desenvolvimento da habilidade de leitura em língua italiana, das técnicas de tradução, e da compreensão e interpretação de textos em diversos níveis.

Carga Horária: 36 horas – 24 aulas de uma hora e meia

Dias: segundas e quintas

Horário: 19h às 20h30min

Início: 05/04/2021

Término: 28/06/2021

Investimento: R$ 2.253,00 => 3 parcelas de R$ 751,00 – material incluso

Nº participantes: mínimo 6 – máximo 8 alunos por turma (realização sujeita ao número mínimo de inscrições)

Plataforma: GOOGLE MEET

Mais informações: insieme@uol.com.br

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Stranieri – Marino Niola

Como Andam os Gêmeos Siameses Assim! – Dante Velloni – Itaú Cultural, 2020.

             Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero. In queste parole del grande poeta Edmond Jabés risuona in tutta la sua profondità l’eco di un dramma dell’erranza e della migrazione costantemente amplificata dalle vicende di queste tempo. In cui la paura degli stranieri monta impetuosa come un’onda periodica. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache del presente si avverte, infatti, la risonanza profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell’accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.

              In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. Basti pensare alla parentela tra i sostantivi, i simboli e le istituzioni che nel mondo greco e latino hanno a che fare con le incognite e i problemi legati al contatto con l’altro. Ma anche alla vitale necessità di tale contatto e dell’accoglienza.

              In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l’ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. Anche l’ebraico del resto chiama zar lo straniero e sar il nemico, distinguendo entrambi dal nokri e dal gher che sono rispettivamente lo straniero di passaggio e quello residente. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l’ospite. Così è per esempio nell’Iliade e nell’Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l’altro, ricco di possibilità, ma anche d’insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.

              Il mito greco – che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al presente remoto – designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l’arrivo degli dèi stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.

              Dioniso era per i greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Ditienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un’imbarcazione di fortuna. Oggi diremmo una carretta del mare.

              I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale. Drammatizzava i sogni e gli incubi del cittadino greco, poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.

              E se lo sbarco di Dionisio era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dell’amore, e della fusione fra i corpi, era addirittura pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l’insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un’ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell’amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, assieme ai suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale.

              È sorprendente come il mito antico riesca a farci interpretare e capire il nostro presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell’essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.

              Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell’apertura dell’altro. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell’homeless, del sans-papier, dell’asylant, per dirla con le parole di adesso. Non a caso il symbolon, parola fondamentale nel mondo greco da cui deriva la parola simbolo, indica l’unione di due metà, sottointendendone però la vicendevole tensione. Era il nome del segno di riconoscimento – un anello, una moneta – che veniva spezzato in due per denotare il legame di ospitalità tra individui e famiglie di città diverse. Un legame destinato a durare nel tempo e che veniva rinsaldato ogni volta che le due metà venivano riaccostate ricostituendo così l’unità simbolica della relazione di scambio. Proprio come la tessera hospitalis latina che veniva divisa dall’ospitante in due metà una delle quali andava all’ospitato come se fosse una sorta di ricevuta o di pegno. E valeva come segno di riconoscimento anche per i discendenti, vincolandoli al patto di solidarietà ereditato.

              Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell’economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell’ospitalità. In realtà l’ambivalenza del rapporto con lo straniero appare l’emblema stesso di quella contaminazione che è la cifra profonda di questo tempo. In un mondo globalizzato come il nostro, caratterizzato da un contatto sempre più ravvicinato di tutti con tutti, da un’incessante migrazione di uomini e cose, da una interconnessione planetaria, si sviluppa, anche come “anticorpo” immaginario, una crescente paura dell’estraneo, di tutto ciò che viene da lontano, di tutto quanto temiamo di non riconoscere e di non riuscire a controllare.

              E in questo senso la paura dilagante di contaminazioni dall’esterno riflette la grande, insanabile, contraddizione di una civiltà come la nostra, che per poter funzionare a pieno regime rende endemico quello stesso male da cui tenta disperamente di rendersi immune. Se il contagio dell’altro è, infatti, la ragione del nostro malessere, il contatto con l’altro è, al contrario, la ragione del nostro benessere. Inseparabili come due gemelli siamesi, contatto e contagio, circolazione e infezione sono le due anime del sistema mondo.

Marino Niola, Miti d’oggi, Bompiani, Milano, 2012, pp. 129-132

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Una goccia – Dino Buzzati

Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso in letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità, e alla fine fanno un piccolo schiocco, ben noto in tutto il mondo. Questa no, piano piano si innalza lungo la tromba delle scale lettera E dello sterminato casamento.

Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnarla. Bensì una servetta del primo piano, squallida piccola ignorante creatura. Se ne accorse una sera, a ora tarda, quando tutti erano già andati a dormire. Dopo un po’ non seppe frenarsi, scese dal letto e corse a svegliare la padrona. “Signora” sussurò “signora!” “Cosa c’è?” fece la padrona riscuotendosi. “Cosa succede?” “C’è una goccia, signora, una goccia che vien su per le scale!” “Che cosa?” chiese l’altra sbalordita. “Una goccia che sale i gradini!” ripeté la servetta, e quasi si metteva a piangere. “Va, va” imprecò la padrona “sei matta? Torna in letto, marsch! Hai bevuto, ecco il fatto, vergognosa. È un pezzo che al mattino manca il vino nella bottiglia! Brutta sporca, se credi…” Ma la ragazza era fuggita, già rincantucciata sotto le coperte.

“Chissà che cosa le sarà mai saltato in mente, a quella stupida”, pensava poi la padrona, in silenzio, avendo ormai perso il sonno. Ed ascoltando involontariamente la notte che dominava sul mondo, anche lei udì il curioso rumore. Una goccia saliva le scale, positivamente.

Gelosa dell’ordine, per un istante la signora pensò di uscire a vedere. Ma che cosa mai avrebbe potuto trovare alla miserabile luce delle lampadine oscurate, pendule dalla ringhiera? Come rintracciare una goccia in piena notte, con quel freddo, lungo le rampe tenebrose?

Nei giorni succesivi, di famiglia in famiglia, la voce si sparse lentamente e adesso tutti lo sanno nella casa, anche se preferiscono non parlarne; come di cosa sciocca di cui forse vergognarsi. Ora molte orecchie restano tese, nel buio, quando la notte è scesa a opprimere il genere umano. E chi pensa a una cosa, chi a un’altra.

Certe notti la goccia tace. Altre volte invece, per lunghe ore non fa che spostarsi, su, su, si direbbe che non si debba più fermare. Battono i cuori allorché il tenero passo sembra toccare la soglia. Meno male, non si è fermata. Eccola che si allontana, tic, tic, avviandosi al piano di sopra.

So di positivo che inquilini dell’ammezzato pensano di essere ormai al sicuro. La goccia – essi credono – è già passata davanti alla loro porta, né avrà più occasione di disturbarli; altri, ad esempio io che sto al sesto piano, hanno adesso motivi di inquietudine, non più loro. Ma chi gli dice che nelle prossime notti la goccia riprenderà il cammino dal punto dove era giunta l’ultima volta, o piuttosto non ricomincerà da capo, iniziando il viaggio dai primi scalini, umidi sempre, ed oscuri di abbandonate immondizie? No, neppure loro possono ritenersi sicuri. Al mattino, uscendo di casa, si guarda attentamente la scala se mai sia rimasta qualche traccia. Niente, come era prevedibile, non la più piccola impronta. Al mattino del resto chi prende più questa storia sul serio? Al sole del mattino l’uomo è forte, è un leone, anche se poche ore prima sbigottiva.

O che quelli dell’ammezzato abbiano ragione? Noi del resto, che prima non sentivamo niente e ci teneva esenti, da alcune notti pure noi udiamo qualcosa. La goccia è ancora lontana, è vero. A noi arriva solo il suo ticchettio leggerissimo, flebile eco attraverso i muri. Tuttavia è segno che essa sta salendo e si fa sempre più vicina.

Anche il dormire in una camera interna, lontana dalla tromba delle scale, non serve. Meglio sentirlo, il rumore, piuttosto che passare le notti nel dubbio se ci sia o meno. Chi abita in quelle camere riposte talora non riesce a resistere, sguscia in silenzio nei corridoi e se ne sta in anticamera al gelo, dietro la porta, col respiro sospeso, ascoltando. Se la sente, non osa più allontanarsi, schiavo di indecifrabili paure. Peggio ancora però se tutto è tranquillo: in questo caso come escludere che, appena tornati a coricarsi, proprio allora non cominci il rumore?

Che strana vita, dunque. E non poter far reclami, né tentare rimedi, né trovare una spiegazione che sciolga gli animi. E non poter neppure persuadere gli altri, delle altre case, i quali non sanno. Ma che cosa sarebbe poi questa goccia: – domandano con esasperante buona fede – un topo forse? Un rospetto uscito dalle cantine? No davvero. E allora – insistono – sarebbe per caso una allegoria? Si vorrebbe, così per dire, simboleggiare la morte? o qualche pericolo? o gli anni che passano? Niente affatto, signori: è semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale.

O più sottilmente si intende raffigurare i sognie le chimere? Le terre vagheggiate e lontane dove si presume la felicità? Qualcosa di poetico insomma? No, assolutamente.

Oppure i posti più lontani ancora, al confine del mondo, ai quali mai giungeremo? Ma no, vi dico, non è uno scherzo, non ci sono doppi sensi, trattasi ahimè proprio di una goccia d’acqua, a quanto è dato presumere, che di notte viene su per le scale. Tic tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura.

(DINO BUZZATI,  La boutique del mistero, Milano, Mondadori, 1992, pp. 74-76)

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Nostalgia di Drummond – Antonio Tabucchi

È una domenica di Lisbona, e io ho nostalgia di Drummond. È una di quelle domeniche che il mio amico Alexandre O’Neil immortalò in una poesia, quando la dolce saudade che i portoghesi si portano dentro, sul volto degli abitanti di Lisbona (e anche sul mio) si trasforma in tedio, mutria. Io ho nostralgia di Drummond.

            Fa un caldo torrido, la città è quasi deserta, passa una turista in pantaloncini dalle lunghe e nivee gambe; stasera gli amici mi hanno invitato sul Tago a mangiare un parago “che così non l’hai mai assaggiato in vita tua”. Io ho nostalgia di Drummond.

            Anche senza il sonoro, le immagini del televisore sono comprensibili. È una vecchia storia; chi assassinava ieri è assassinato oggi in attesa che i suoi figli abbiano buoni motivi per assassinare domani. Speriamo che più tardi si alzi la brezza promessa dal bollettino meteorologico. Io ho nostalgia di Drummond.

            Il campionato di calcio è terminato. C’è chi ha vinto e c’è chi ha perso: il club Tal dei Tali festeggia la vittoria con mortaretti e promette trionfi futuri. Una stimata cattedratica francese nelle sue passeggiate nel bosco narrativo rivela a noi comuni mortali che la scrittura si misura solo con se stessa. Io ho nostalgia di Drummond.

            In una situazione come questa, la pulizia etnica è una questione secondaria, afferma sul “Corriere della Sera” un commentatore politico, e la tortura è una pratica necessaria “in caso di necessità” [sic]. Il missile che ha raggiunto l’ospedale si è deviato da solo, dichiara uno stratega americano con il rispetto che merita l’autodeterminazione dei missili. Ho comprato troppi giornali e ho nostalgia di Drummond.

            I critici letterari non hanno dubbi: se al lipogramma corrisponde il liposema, ne deriva di conseguenza che quel certo testo è contemporaneamente lipogrammatico e liposemico. Forse sarebbe opportuno studiare la teoria degli equivoci, ma pare che il tempo stringa. Io ho nostalgia di Drummond.

            Di Drummond che ha scritto: “Amore, / poiché è parola essenziale, / cominci questa poesia e tutta l’avvolga. / Amore guidi il mio verso e, nel guidarlo, / unisca anima e sensi, / membro e vulva. / Chi oserà dire che esso è solo anima? / Chi non sente l’anima spandersi nel corpo / fino a sboccare in un puro grido d’orgasmo, / in un istante d’infinito?”.

            Di Drummond che ha scritto: “La Bomba / è un fiore di panico che terrorizza i floricultori / (…) / La Bomba / rutta impostura e prosopopea politica / La Bomba avvelena i bambini ancora prima che nascano / (…) / La Bomba / ha chiesto al Diavolo che la battezzasse e a Dio che convalidasse il battesimo”.

            Di Drummond che ha scritto: “Non sarò il poeta di un mondo caduco. / E non canterò neppure un mondo futuro. / Sto attaccato alla vita / e guardo i miei compagni”.

            Di Drummond che ha scritto: “Dalle correlazioni fra topos e macrotopos / dagli elementi soprasegmentali / libera nos, Domine. / Dal vocoide, / dal vocoide nasale o senza occlusione consonantica / dal vocoide basso e dal semivocoide omorganico / libera nos, Domine. / Dal programma epistemologico nell’opera / dal taglio epistemologico e dal taglio dialogico / dal sostrato acustico del culminatore / dal sistemi genitivamente affini / libera nos, Domine”.

            Di Drummond che ha scritto: “Stéphane Mallarmé ha esaurito il calice dell’Inconoscibile. / A noialtri resta solo il quotidiano”.

            Di Drummond che ha scritto: “Quando nacqui / un angelo storto / di quelli che vivono nell’ombra / mi disse: vai, Carlos, a essere gauche nella vita!”.

            Anni fa, quando ti conobbi, caro Carlos Drummond de Andrade, era una limpida sera di Copacabana. E tu eri un vecchio poeta che mi parlava della cometa Halley ammirata da bambino nel remoto altopiano di Minas Gerais. Ed eri così esile che temetti che il vento dell’Atlantico ti portasse via. Ora che sono passati degli anni dalla tua morte, devi essere più leggero di una foglia. Perché non approfitti della brezza che la televisione ha promesso per stasera e non vieni a fare due chiacchiere con me in questa domenica di Lisbona?

A.Tabucchi, Viaggi e altri viaggi. Milano: Feltrinelli, 2010, p.198-200

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La strega – Gianni Rodari

Una volta il professor Grammaticus decise di ritirarsi per qualche giorno in montagna a meditare sull’analisi logica.

“Nella pace dei pascoli, – egli pensava, – nel silenzio dei boschi potrò contemplare a mio agio le bellezze del complemento oggetto. La sera, per passatempo, inventerò dei predicati verbali”.

Detto e fatto, scelse sulla guida un paesino dell’Appennino tosco-romagnolo, si recò alla stazione delle autocorriere e partí, sorridendo alla visione di un complemento di moto a luogo.

Quando il paesino gli apparve, in sella tra due cime verdi, il professor Grammaticus fu lí lí per piangere dall’emozione: era bello e accogliente come un complemento di stato in luogo.

Purtroppo, appena sceso dall’autocorriera sulla piccola piazza, egli fu costretto a inorridire. Un vociare confuso e rabbioso veniva dalle stradine e dai vicoli; donne strillanti si affacciavano alle finestre, chiassosi ragazzi accorrevano d’ogni parte.

            – Che c’è? Che succede? Forse un incendio? – domandò il professore perplesso e, dentro di sé, già deciso a procurarsi un paese piú calmo.

            – Se lei sapesse, – disse un vecchietto, perdendo la pipa per l’emozione.

            – Desidero appunto sapere. Mi informi.

            – Abbiamo scoperto una strega e stiamo per bruciarla.

            – Una strega? Nell’era della televisione e degli “sputnik”?

            – Sicuro. Si dice che abbia fatto orribili malie.

            – Ma è impossibile!

            – Impossibile? Guardi lei stesso.

            Il rumoso corteo stava infatti giungendo sulla piazza. Una giovane donna con le mani legate avanzava vergognosa tra la folla schiamazzante.

            – Ecco la prova! – gridò il vecchietto, indicando il cartello che la giovane recava appeso al collo.

            Il professor Grammaticus inforcò gli occhiali e lesse:

            – Maliaia fine. Faccio malie di tutte le misure.

            Fu un lampo.

            – Alt! – intimò il professor, spalancando le braccia.

            La folla si arrestò davanti a quell’autorevole personaggio. Nell’improvviso silenzio si udí un lattante frignare.

            – Che vuole lei? – domandò finalmente un omaccione coi baffi rossi. – Si faccia da parte, se non vuol essere bruciato insieme con la strega.

            – Questa donna è innocente!

            – E lei come lo sa?

            – Osservate!

            Il professor Grammaticus levò la matita rossa dal taschino, si chinò sul cartello e vi scarabocchiò in fretta qualcosa.

            – Leggete ora!

            E tutti lessero: – Magliaia fine. Faccio maglie di tutte le misure.

            – Avete capito? – gridò il professor Grammaticus, trionfante. – Questa giovane artigiana non si occupa di stregoneria, ma di maglieria. E per dimostrarvi la mia fiducia in lei le ordino seduta stante di confezionarmi un maglione giro collo di lana blu, con le mie iniziali ricamate in rosso sul petto.

            La giovane magliaia cadde in ginocchio davanti al professor Grammaticus e fece l’atto di baciargli le mani.

            Ma il professor Grammaticus la rialzò cavallerescamente, sciolse la corda che la legava e le diede mille lire di anticipo per il maglione.

            La giovane promise che, nei ritagli di tempo, avrebbe fatto esercizi di autodettatura e si allontanò felice, festeggiatissima da compaesani, che in fondo erano ben contenti di non essere costretti a bruciarla.

G.Rodari, Il libro degli errori. Torino: Einaudi, 1999, p.63-65

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BOLSA DE ESTUDO – Preparatório para Proficiência em Italiano

 

Em dezembro de 2019, tornei pública a prática de concessão de bolsas de estudo. Na época, pensei que o momento pedia uma atitude ao alcance de pessoas que queriam ingressar na Pós-Graduação e não tinham condições financeiras.

Com o advento da pandemia da Covid-19, toda crise ficou ainda mais aguda. Com a publicação do edital da Faculdade de Direito da USP para 2021, resolvi oferecer mais uma bolsa de estudo para o Curso Preparatório para Proficiência em Italiano.

A bolsa compreende exclusivamente as horas/aula. O curso terá duração até a data da prova da FDUSP, dia 12/07/2020, tendo previsão de início na semana do dia 18/05/2020. Serão no total 16 aulas de uma hora e meia (24 horas) ministradas via Skype em horários a serem divulgados somente aos candidatos aprovados para a entrevista. O valor dos materiais não está incluído.

O calendário poderá variar de acordo com o cronograma da FDUSP e eventual adiamento da prova de proficiência aplicada pela FUVEST.

A bolsa será concedida ao candidato que preencher os seguintes requisitos:

  1. Estar concorrendo a uma vaga do concurso de Pós-Graduação (mestrado ou doutorado) da Faculdade de Direito da USP.
  2. Possuir formação, ter envolvimento ou interesse acadêmico na área de interesse da pesquisa.
  3. Propor um projeto de pesquisa que tenha relevância pública e/ou seja inovador.
  4. Não ter condições financeiras de pagar pelo curso preparatório ao exame de proficiência na língua italiana (por estar desempregado, possuir baixa renda ou apresentar qualquer outro motivo relevante à professora).

Passo a passo da seleção:

  1. De 06/05/2020 a 13/05/2020: divulgação e inscrições. Os candidatos devem enviar uma carta explicando os motivos que justificam o pedido da bolsa de estudo, juntamente com o link do currículo Lattes para insieme-bolsadeestudo@uol.com.br.
  2. De 14/05/2020 e 15/05/2020: análise de CV e agendamento de entrevistas por Skype.
  3. Dia 16/05/2020: entrevistas via Skype com a Prof.ª Mônica Gonçalves.
  4. Dia 17/05/2020: somente o candidato que for aprovado receberá uma mensagem por e-mail.
  5. Não haverá contestação do resultado.

Benvenuti!

 

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FDUSP – Edital de seleção para a Pós-Graduação 2021

Hoje, dia 29/04/2020, foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP para o ano de 2021.

Todas as provas de proficiência em línguas estrangeiras serão aplicadas
no dia 12/07/2020 (domingo).

Para maiores informações visite o site da FDUSP

Arrivederci

Mônica

 

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Venezia – Jhumpa Lahiri

In questa città inquietante, quasi onirica, scopro un nuovo modo per capire il mio rapporto con l’italiano. Questa topografia frammentata, disorientante, mi dà un’altra chiave.

Si tratta del dialogo tra i ponti e i canali. Un dialogo tra l’acqua e la terraferma. Un dialogo che esprime uno stato sia di separazione sia di connessione.

A Venezia non posso muovermi senza attraversare innumerevoli ponti pedonali. All’inizio dover attraversare un ponte quasi ogni due minuti mi affatica. Mi senza un percorso atipico, leggermente difficile. In poco tempo, però, mi abituo. Pian piano questo percorso diventa abituale, seducente. Salgo, attraverso un canale, poi scendo dall’altra parte. Camminare per Venezia vuol dire ripetere quest’azione un numero incalcolabile di volte. In mezzo a ogni ponte mi trovo sospesa, né di qua né di là. Scrivere in un’altra lingua somiglia a un percorso del genere.

La mia scrittura in italiano, così come un ponte, è qualcosa di costruito, di fragile. Potrebbe in qualsiasi momento sprofondare, lasciandomi in pericolo. L’inglese scorre sotto i piedi. Me ne sono accorta: è una presenza innegabile, anche se provo a evitarlo. Rimane come l’acqua a Venezia, l’elemento più forte, più naturale, l’elemento che minaccia sempre di inghiottirmi. Paradossalmente, potrei sopravvivere senza problemi in inglese, non annegherei. Eppure, non volendo nessun contatto con l’acqua, faccio i ponti.

A Venezia mi accorgo di uno stato d’inversione di quasi tutti gli elementi. Mi è difficile distinguere tra ciò che sembra un’illusione, un’apparizione. Tutto mi appare instabile, mutevole. Le strade non sono solide. Le case sembrano galleggiare. La nebbia può rendere invisibile l’architettura. L’acqua alta può allagare una piazza. I canali rispecchiano una versione inesistente della città.

Lo smarrimento che avverto a Venezia è simile a quello che mi prende quando scrivo in italiano. Nonostante la pianta dei sestieri, mi perdo. Il labirinto veneziano trascende la propria grammatica. Camminare a Venezia, così come scrivere in italiano, è un’esperienza spiazzante. Devo arrendermi. Mentre scrivo affronto tantissimi vicoli ciechi, tanti angoli angusti da cui devo districarmi. Devo abbandonare certe strade. Devo correggermi continuamente. Ci sono momenti in italiano, così come a Venezia, in cui mi sento soffocata, sconvolta. Poi giro e, quando meno me lo aspetto, mi ritrovo in un luogo sperduto, silenzioso, splendente.

Con gli anni Venezia ha un impatto sempre più sconcertante su di me. La bellezza travolgente mi trafigge, sono sopraffatta dalla fragilità della vita. Passare ripetutamente sui ponti mi fa pensare a quel passaggio che facciamo tutti noi sulla terra, tra la nascita e la morte. Talvolta, attraversando certi ponti, temo di aver già raggiunto l’aldilà.

Quando scrivo in italiano, nonostante il mio amore per la lingua, sento la stessa inquietudine. Questo passo che sto facendo sembra un salto nel vuoto, un’inversione di me stessa. Così come i riflessi dei palazzi che oscillano sulla superficie del Canal Grande, la mia scrittura in italiano sembra qualcosa di impalpabile. Vaporosa, come la nebbia. Temo che il ponte tra me e l’italiano, alla fine, non esista. Che resterà, nella migliore delle ipotesi, una chimera.

Tuttavia, sia a Venezia sia sulla pagina, i ponti sono l’unico modo per muovermi in una nuova dimensione, per superare l’inglese, per arrivare altrove. Ogni frase che scrivo in italiano è un piccolo ponte da costruire, poi da attraversare. Lo faccio con titubanza mista a un impulso persistente, inspiegabile. Ogni frase, come ogni ponte, mi porta da un luogo a un altro. è un percorso atipico, seducente. Un nuovo ritmo. Adesso mi sono quasi abituata.

 

Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda Editore, Milano, 2015, pag. 77-80

 

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FDUSP – Seleção para a Pós-Graduação 2021

A Comissão de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da
Universidade de São Paulo tornou públicas as principais datas para os interessados em se
inscrever no processo seletivo para ingresso no PPGD da FDUSP no ano de 2021:

• 20 de abril de 2020: publicação do Edital (a partir desse ano, haverá um
único edital)

• 21 de junho de 2020: provas de proficiência em línguas estrangeiras da
FUVEST (a partir desse ano, não serão aceitos certificados externos)

• 26 de julho de 2020: prova de conhecimentos jurídicos (a partir desse ano
haverá uma prova para candidatos ao mestrado e outra para candidatos ao
doutorado, dispensados os que sejam mestres em Direito por um PPGD que
tenha obtido avaliação 6 da CAPES nos dois últimos ciclos de avaliação – 2013
e 2017)

 

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Per i bimbi d’oggi il pollo ha sei cosce – Andrea Camilleri

 

Qualche decina d’anni addietro al nipotino d’un mio amico assegnarono un tema da svolgere a casa che pressappoco sonava così: “Parlate del vostro gatto”. E come fare? Al picciriddo avevano sempre proibito, a malgrado di suppliche e pianti, di tenere animali domestici (e nella stessa classificazione dovevano rientrare magari i compagnucci di scuola, dato che non lo mandavano mai fora di casa). Munito di carta e penna, guardato a vista dalla madre affacciata al balcone, il bambino scese in strada e si appuntò le fattezze di un gatto randagio che transitava. Ne venne fora un tema nel quale si contava come equamente il suo gatto avesse tre zampe, un orecchio, la coda rosicchiata e la rogna diffusa. Queste cose aveva visto e queste aveva raccontate.

In famiglia quel compito fu a lungo motivo di grosse risate. «Bei tempi!» mi viene da esclamare ora. Perché quel bambino aveva in fondo fatto un ritratto “dal vero” come si diceva una volta, vale a dire rapportato alla natura, ancora legato alla realtà. Ma sempre più appare evidente come, giorno presso giorno, si faccia non drammatico ma addirittura tragico il divario tra la vita quotidiana in città e la natura. C’è un esempio di queste ore che mi appare terrificante. Un’agenzia specializzata ha fatto un’inchiesta tra bambini romani per conoscere se sapevano come era fatto un pollo. Ebbene i bambini, compresi mi pare in un arco che andava dai 3 agli 8 anni, hanno risposto a maggioranza che il pollo non esiste allo stato naturale ma viene prodotto in fabbriche apposite, vale a dire che è artificiale. Tanto artificiale che in commercio la fabbrica ne immette di due tipi: pollo crudo (per gli sfiziosi che se lo vogliono magari fare alla cacciatora) e pollo arrosto.

C’è molta incertezza tra i bambini sul numero delle cosce che ogni pollo possiede, c’è chi dice che ne abbiano sei e chi giura e spergiura che ne possiedano otto. Ad ogni modo c’è stato uno solo che ha affermato che il pollo di cosce ne ha due, ma è stato subissato da tagliate e parole di scherno. L’incertezza ha poi regnato sovrana sul numero delle ali: comunque i bambini sono arrivati alla comune conclusione che in un pollo il numero delle ali è sempre inferiore di gran lunga a quello delle cosce, tant’è vero che a tavola si portano più cosce che ali. La tragedia (permettetemi di chiamarla così senza ombra di ironia) aveva principiato però a mostrare la sua faccia qualche anno passato, quando dei bambini, sempre di città, avevano compreso, in un elenco di pesci, magari il “pesce-bastoncino”. Scrivo queste righe e credetemi sudo freddo perché, vedete, questo è un abisso senza fondo. Vogliamo fare una scommessa? Sono pronto a fornire già da ora la risposta dei picciriddi se l’inchiesta venisse rifatta non dico tanto ma tra una decina d’anni: “Il pesce è un animale virtuale che naviga nelle acque virtuali dell’Internet. Per stanarlo dal suo sito la formula è: wwwzypescewzyx”. Provo spavento: l’idea che un bambino possa pensare che un essere vivente venga fabbricato da un macchinario rappresenta ai miei occhi la corruzione, la distorsione peggiore che si possa commettere nei riguardi del cervello di un bambino. Perché tra l’altro, così facendo, lentamente ma sicuramente l’abituiamo al peggio. Quale peggio? Tra vent’anni, quando un altro nonno (non io, che intanto mi sarò felicemente chiamato fuori) domanderà al nipotino il nome dei suoi compagni di classe si sentirà rispondere: “Antonio, Antonio, Antonio, Antonio…”… “Ma come, si chiamano tutti uguali?” e il nipotino, meravigliato dalla domanda: “Ma sono cloni, nonno!”.

 

Andrea Camilleri, Racconti quotidiani, Mondadori, Segrate, 2008

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I sette messaggeri – Dino Buzzati

 

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.

Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.

Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine. Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire.

Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri.

Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e sì che nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcatura. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.

Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio.

Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato.

Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.

Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesimo solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.

Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca, intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.

Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.

Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.

Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggianti che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.

Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.

Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.

Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto.

Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è per sempre la mia vecchia patria. Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.

Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.

Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.

Un’ansia incosueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.

Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attaversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.

Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.

 

Dino Buzzati, La boutique del mistero, Milano: Mondadori, 1992, pp. 3-7

 

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L’impossibilità – Jhumpa Lahiri

Villa Adriana Sotterranea

 

In un numero di “Nuovi Argomenti”, leggendo un’intervista con il romanziere Carlos Fuentes, trovo questo: “È estremamente utile sapere che non si potrà mai raggiungere certe vette”.

Fuentes si riferisce a certi capolavori letterari – opere geniali come Don Chisciotte, per esempio – che restano intoccabili. Credo che queste vette abbiano un doppio ruolo, considerevole, per gli scrittori: ci fanno puntare alla perfezione e ci ricordano la nostra mediocrità.

Come scrittrice, in qualsiasi lingua, devo tenere conto della presenza di grandissimi autori. Devo accettare la natura del mio contributo rispetto al loro. Pur sapendo che non riuscirò mai a scrivere come Cervantes, come Dante, come Shakespeare, scrivo comunque. Devo gestire l’ansia che queste vette possono suscitare. Altrimenti, non oserei scrivere.

Ora che scrivo in italiano, l’osservazione di Fuentes mi sembra ancora più pertinente. Devo accettare l’impossibilità di raggiungere la vetta che mi ispira, ma allo stesso tempo mi porta via spazio. Ora la vetta non è l’opera di un altro scrittore più brillante di me, ma invece il cuore della lingua in sé. Pur sapendo che non riuscirò a trovarmi sicuramente dentro questo cuore, cerco, attraverso lo scrivere, di raggiungerlo.

Mi chiedo se sto andando controcorrente. Vivo in un’epoca in cui quasi tutto sembra possibile, in cui nessuno vuole accettare alcun limite. Possiamo inviare un messaggio in un istante, possiamo andare da un capo all’altro del mondo in una giornata. Possiamo vedere chiaramente una persona che non sta accanto a noi. Ecco perché si può dire tranquillamente che il mondo è più piccolo rispetto al passato. Siamo sempre connessi, raggiungibili. La tecnologia rifiuta la lontananza, oggi più che mai.

Eppure, questo mio progetto in italiano mi rende acutamente consapevole delle distanze immani tra le lingue. Una lingua straniera può significare una separazione totale. Può rappresentare, ancora oggi, la ferocia della nostra ignoranza. Per scrivere in una nuova lingua, per penetrarne il cuore, nessuna tecnologia aiuta. Non si può accelerare il processo, non si può abbreviarlo. L’andamento è lento, zoppicante, senza scorciatoie. Più capisco la lingua, più si ingarbuglia. Più mi avvicino, più si allontana. Ancora oggi il distacco tra me e l’italiano rimane insuperabile. Ho impiegato quasi la metà della mia vita per fare appena due passi. Per arrivare solo qui.

In questo senso la metafora del piccolo lago che volevo attraversare, con cui ho cominciato questa serie di riflessioni, è sbagliata. Perché in realtà una lingua non è un laghetto ma un oceano. Un elemento tremendo e misterioso, una forza della natura davanti alla quale mi devo inchinare.

In italiano mi manca una prospettiva completa. Mi manca la distanza che mi aiuterebbe. Ho solo la distanza che mi ostacola.

Non è possibile vedere il paesaggio per intero. Conto su certe vie, certi modi per passare. Qualche percorso di cui ormai mi fido, da cui probabilmente dipendo troppo. Riconosco certe parole, certe costruzioni, come se fossero alberi familiari durante una passeggiata quotidiana. Ma scrivo, alla fine, dentro una trincea.

Scrivo ai margini, così come vivo da sempre ai margini dei Paesi, delle culture. Una zona periferica in cui non è possibile che io mi senta radicata, ma dove ormai mi trovo a mio agio. L’unica zona a cui credo, in qualche modo, di appartenere.

Posso costeggiare l’italiano, ma mi sfugge l’entroterra della lingua. Non vedo le vie segrete, gli strati celati. I livelli nascosti. La parte sotterranea.

A villa Adriana, a Tivoli, c’è una rete viaria gigantesca, un sistema impressionante e imponente, tutto sottoterra. Questo complesso di passaggi è stato scavato per trasportare merci, servitori, schiavi. Per separare l’imperatore dal popolo. Per nascondere la vita vera e chiassosa della villa, così come la pelle nasconde tutte le funzioni, brutte ma essenziali del corpo.

A Tivoli capisco la natura del mio progetto in italiano. Come i visitatori di oggi alla villa, come Adriano quasi due millenni fa, cammino sulla superficie, la parte accessibile. Ma so, da scrittrice, che una lingua esiste nelle ossa, nel midollo. Che la vera vita della lingua, la sostanza, è lì.

Torniamo a Fuentes: sono d’accordo, credo che una consapevolezza dell’impossibilità sia centrale all’impulso creativo. Davanti a tutto ciò che mi sembra irraggiungibile, mi meraviglio. Senza un sentimento di meraviglia verso le cose, senza lo stupore, non si può creare nulla.

Se tutto fosse possibile, quale sarebbe il senso, il bello della vita?

Se fosse possibile colmare la distanza tra me e l’italiano, smetterei di scrivere in questa lingua.

 

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BOLSA DE ESTUDO – Preparatório para proficiência em italiano

Ao longo da minha prática profissional, percebi que muitos alunos preparados, com projetos de Pós-Graduação de relevância pública, não possuíam condição financeira para arcar com os custos de um curso de italiano, um dos requisitos para o ingresso no mestrado ou doutorado.

Nos últimos anos, tenho concedido bolsas de estudo e isso sempre tem sido muito gratificante. Resolvi então oficializar esta prática e tornar públicos os critérios para a concessão de uma bolsa, a partir de fevereiro de 2020, para o curso preparatório para exames de proficiência na língua italiana.

A bolsa compreende exclusivamente as horas/aula. O curso terá duração de 5 meses – de 1 de fevereiro a 30 de junho de 2020. Serão no total 20 aulas de uma hora e meia (30 horas) ministradas via Skype em horários a serem divulgados aos candidatos aprovados para a entrevista. O valor dos materiais não está incluído.

A bolsa será concedida ao candidato que preencher os seguintes requisitos:

  1. Estar concorrendo a uma vaga em concurso público de Pós-Graduação (mestrado ou doutorado) em universidade/faculdade pública.
  1. Possuir formação, ter envolvimento ou interesse acadêmico na área de interesse da pesquisa.
  1. Propor um projeto de pesquisa que tenha relevância pública e/ou seja inovador.
  1. Não ter condições financeiras de pagar pelo curso preparatório ao exame de proficiência na língua italiana (por estar desempregado, possuir baixa renda ou apresentar qualquer outro motivo relevante à professora).

 

Passo a passo da seleção:

  1. De 02/12/2019 a 05/01/2020: divulgação e inscrições. Os candidatos devem enviar uma carta explicando os motivos que justificam o pedido da bolsa de estudo, juntamente com um breve currículo, para insieme-bolsadeestudo@uol.com.br.
  2. De 06/01/2020 a 17/01/2020: análise de CV e agendamento de entrevistas por Skype.
  3. De 20/01/2020 a 24/01/2020: entrevistas via Skype com a Prof.ª Mônica Gonçalves.
  4. Dia 30/01/2020: somente o candidato que for aprovado receberá uma mensagem por e-mail.
  5. Não haverá contestação do resultado.

Benvenuti!

 

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Lançamento livro MEDICINA DEMAIS – Marco Bobbio

Gostaria de convidá-los para o lançamento do livro MEDICINA DEMAIS!, de Marco Bobbio, que tive o imenso prazer de traduzir.

 

 

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FDUSP – Edital de seleção para a Pós-Graduação 2020

Foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP para o ano de 2020.

A comprovação de proficiência em língua italiana poderá ocorrer:

a) pela aprovação em exame aplicado pela Fuvest por meio de edital específico; ou
b) pela aprovação em exame igualmente aplicado pela Fuvest, para os processos seletivos para ingresso no PPGD havidos nos anos de 2017 e 2018 (respectivamente para ingresso nos anos letivos de 2018 e 2019); ou
c) pela apresentação de um dos seguintes certificados, desde que dentro de sua data de validade; ou, não havendo data de validade, desde que obtido em prazo inferior a dois anos:
– Certificazione di Italiano come Lingua Straniera (CILS), Certificado de Conhecimento de Língua Italiana (CELI), Certificação pelo Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri PLIDA), que atestem nível B1 ou superior;

Para orientação mais detalhadas leia o edital no site da FDUSP ou acesse as informações sobre a prova da FUVEST clicando aqui: Edital_Exame_Proficiencia_Linguas_Estrangeiras_2020

Arrivederci!

Mônica Gonçalves

 

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Le città invisibili – Leonia – Italo Calvino

 

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche che dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo i tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose di ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare. Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalla città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arrestare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne. Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri. Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle altre città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.

Le città invisibili, Italo Calvino

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Ouro Preto – Antonio Tabucchi

Il casuale viaggiatore che eventualmente si fosse fermato a Congonhas do Campo nella tappa precedente, non avrà difficoltà a raggiungere Outro Preto, praticamente “a due passi”, considerate le distanze di questo immenso paese. Ci troviamo ancora nello Stato di Minas Gerais (alla lettera “Miniere Generali”), regione un tempo ricchissima di giacimenti d’oro, argento e diamanti che nel Settecento fece della Corona portoghese una delle più ricche di Europa. Minas Gerais è fra l’altro lo scenario del favoloso Sertão di Guimarães Rosa (Grande Sertão, Corpo di ballo, Miguilim). Lontano dai grandi centri urbani, trascurato dal potere, abbandonato a se stesso e alle sue leggi spesso crudeli, il Sertão, fino a pochi anni fa zona di latifondi e di grandi pascoli, ha una vaga rassomiglianza con il Far West americano, dove il vaccaro e il pistolero sono le figure predominanti. Il pistolero (non di rado intercambiabile con il vaccaro) qui si chiamava jagunço: figura a metà fra il brigante alla Robin Hood, il fuorilegge e il mercenario dei latifondisti. Andava vestito di cuoio, armato fino ai denti, con un cappello a mezzaluna adorno di monete e di denti di animali. Sullo schermo lo ha immortalato il grande regista Glauber Rocha nel film António das Mortes, mentre Guimarães Rosa ne ha fatto una figura categoriale, l’uomo perso fra il bene e il male nel labirinto della vita. Un labirinto che è un deserto (Sertão, etimologicamente significa “grande deserto”, “desertone”), una sconfinata pianura caratterizzata da una vegetazione avara e spinosa dove appaiono improvvise, come incongrue colonne ioniche in un mare di nulla, le altissime palme buritì con un esile ciuffo di foglie per capitello.
Ouro Preto significa “Oro Nero”. Niente a che vedere con ciò che oggi l’espressione significa per noi. Il petrolio non c’entra: il nero si riferisce agli schiavi neri che lavoravano nelle miniere d’oro, robusta e gratuita mano d’opera che i portoghesi importarono dalle loro colonie africane (Angola, Guinea e Mozambico) visto che i nativi morivano con
estrema facilità (l’indio, data l’esile, quasi femminea struttura fisica, non resisteva al pesante lavoro sottoterra). La monarchia portoghese, molto cattolica, nell’importazione fu assai confortata da una Bolla papale secondo la quale dei poveri selvaggi che adoravano i fiumi, le foreste e la volta celeste, ricevendo il battesimo dai padroni europei, potevano accedere al paradiso anche se con le catene alle caviglie, beatitudine di cui mai avrebbero goduto se restavano nelle loro foreste. E così gli schiavi furono portati in Brasile, tanti. E scavarono nelle miniere con braccia robuste. E si convertirono alla nuova fede, confidando in un dio che li salvasse dalla schiavitù e che per coincidenza ero lo stesso di coloro che li avevano fatto schiavi..
Le chiese barocche più belle di Ouro Preto, come quella di Nossa Senhora do Pilar o quella di São Francisco de Assis o di Nossa Senhora da Conceição, furono costruite da quei “minatori”. Il disegno appartiene ovviamente ad architetti portoghesi o a un grande maestro locale come l’Aleijadinho, lo scultore lebbroso di Congonhas do Campo. Ma messa in opera è di quelle anonime braccia africane (“al nero”: non c’è espressione migliore per dirlo).
Si racconta che per fare offerte al nuovo dio salvatore, dato che venivano fatti uscire nudi dalle miniere e subivano un’ispezione rettale, gli schiavi cospargessero il cuoio capelluto di polvere aurifera ben celata dai capelli crespi. A casa, le donne lavavano le teste degli uomini in un bacile, raccoglievano la polvere d’oro e la donavano alle chiese per docorarne gli altari e i soffitti. Gli sfavillanti interni delle chiese di Ouro Preto che ora state ammirando da casuali viaggitori quali siete (e quali siamo); quegli altari, gli angeli e i cori barocchi intagliati nel legno e ricoperti di una foglia di oro finissimo furono fatti in questo modo. Forse è il momento di sedere (o di inginocchiarsi, dipende dal viaggiatore) sulla panca di una di queste chiese. Pausa di riflessione.

 

Antonio Tabucchi, Viaggi e Altri Viaggi, Milano: 2010.

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San Martino del Carso – Giuseppe Ungaretti

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato

 

Valloncello dell’Albero Isolato, 27 de agosto de 1916

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Il cielo è di tutti – Gianni Rodari

Il cielo di Giotto – Cappella degli Scrovegni

 

Qualcuno che la sa lunga

mi spieghi questo mistero:

il cielo è di tutti gli occhi,

di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.

È del vecchio e del bambino,

dei romantici e dei poeti,

del re e dello spazzino.

Il cielo è di tutti gli occhi,

e ogni occhio, se vuole,

si prende la Luna intera,

le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa

e non manca mai niente:

chi guarda il cielo per ultimo

non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,

in prosa o in versetti,

perché il cielo è uno solo

e la Terra è tutta a pezzetti.

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“Bella Ciao” e os novos ritmos

Tenho ouvido com frequência algumas versões da canção “Bella Ciao“, hino oficial da Resistência italiana. Um movimento de luta popular, política e militar que ocorreu durante a Segunda Guerra Mundial em várias áreas ocupadas pelos exércitos alemão e italiano.

A canção tornou-se símbolo da liberdade contra o opressor e já foi cantada pelos mexicanos na Califórnia, pelos curdos e turcos, pelos ucranianos anti-Putin e, mais recentemente, durante as manifestações de solidariedade ao jornal satírico Charlie Hebdo.

Gosto da batida, dos novos ritmos, das crianças e adolescentes cantando. Só gostaria que conhecessem a história que o hino carrega, por isso decidi compartilhar.

Quem quiser ler mais a respeito, segue a dica.

Bella ciao, ciao, ciao…

 

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FDUSP – Exame de Proficiência em Línguas Estrangeiras 2018/19

 

Foram publicadas as informações relativas ao exame de proficiência em línguas estrangeiras para ingresso, em nível de mestrado e doutorado, no Programa de Pós-Graduação em Direito da FDUSP.

As inscrições deverão ser feitas exclusivamente pelo site da Fuvest (www.fuvest.br), com início às 12h00 de 21 de maio de 2018 e encerramento às 12h00 de 06 de junho de 2018.

A prova de língua italiana será realizada no dia 01/07/2018 das 13:30 às 15:30, os portões serão abertos às 13:00.  O local de prova será informado pelo site http://www.fuvest.br no dia 18 de junho de 2018.

Buona fortuna a tutti!

 

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FDUSP – Edital de seleção para Pós-Graduação 2019

Foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da Faculdade de Direito da USP para o ano de 2019.

A comprovação de proficiência em língua italiana poderá ocorrer:

a) pela aprovação em exame aplicado pela Fuvest por meio de edital específico; ou
b) pela aprovação em exame igualmente aplicado pela Fuvest, para os processos seletivos para ingresso no PPGD havidos nos anos de 2016 e 2017 (respectivamente para ingresso nos anos letivos de 2017 e 2018); ou
c) pela apresentação de um dos seguintes certificados: Certificazione di Italiano come Lingua Straniera (CILS), Certificado de Conhecimento de Língua Italiana (CELI), Certificação pelo Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri (PLIDA), que atestem nível B1 ou superior, desde que dentro de sua data de validade; ou, não havendo data de validade, desde que obtido em prazo inferior a dois anos

Para orientação e informações mais detalhadas, leia o edital no site da FDUSP ou acesse o site da FUVEST.

Arrivederci!

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PUC-SP – Exame de proficiência – maio/2018

Logo puc-sp

Foi publicado o edital de seleção para o programa de Pós-Graduação da PUC-SP. As provas de proficiência em língua estrangeira serão realizadas entre os dias 7 e 11 de maio de 2018.

A prova de italiano será no dia 10.05.2018 das 14:00 às 16:00. Os candidatos deverão comparecer até às 13:45 ao Campus Monte Alegre (Perdizes), no Edifício Reitor Bandeira de Mello, à Rua Ministro Godói, nº 969, Perdizes, São Paulo, S.P.

As inscrições deverão ser feitas através do site da PUC Concursos no período de 04 a 27 de abril de 2018.

Para informações e orientação mais detalhadas, entre em contato com 3670.3344 ou leia o edital clicando aqui.

Buona fortuna a tutti!

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La libertà – Dino Buzzati

         Tempo fa, al mercato, comprai un pesce rosso contenuto in un vasetto rotondo di vetro trasparente. Là dentro l’animale stava stretto, di nuotare non se ne parlava neanche. E vederlo dar di muso continuamente contro il vetro, mi faceva star male. Per quanto ripetute, le delusioni mai lo persuadevano, era evidente, dell’inutilità dei suoi sforzi per evadere.

         Impietoso, decisi di procurargli una casa meno piccola. E in giardino feci costruire una bella vasca tonda del diametro di metri tre e cinquanta, e profonda mezza gamba. Pronta che fu la vasca, la riempii di acqua fresca, e stavo per rovesciarci dentro il pesciolino quando mi venne in mente: lui attualmente si trova in acqua quasi tiepida, se lo getto all’improvviso in acqua fredda, non si prenderà una congestione? A evitare il rischio, adottai una soluzione molto semplice. Calai sul fondo, così come stava, il vaso di vetro lasciandoci dentro l’acqua e il pesciolino. Con due vantaggi: uno che la bestiola si poteva così acclimatare alla bassa temperatura della vasca; secondo, che più grande, perché inaspettata e senza scosse, sarebbe stata la sua lieta sorpresa, quando, venuto, come faceva spesso, in superficie, si fosse accorto che l’acqua non finiva lì, che la prigione non era più prigione e che tutto intorno si stendeva un grande oceano a sua disposizione.

         Così avvenne. Deposto il vaso sul fondo, per qualche tempo il pesce continuò a battere il naso contro il vetro, poi risalito, casualmente all’imboccatura della boccia, trovando ancora acqua, si affacciò timidamente, e infine, non incontrando ostacoli di sorta, si mise a scorribandare da una parte all’altra della vasca, entusiasta della inaspettata libertà.

         Questa allegria durò un paio di giorni. Tre mattine dopo, andato a vedere come stava restai di sasso vedendolo rintanato nel vaso che avevo dimenticato nella vasca. Se ne stava quieto dondolandosi a mezz’acqua, né dava più di testa, come prima, contro la parete. “Capriccio di pesce!” io pensai. “Anche gli ergastolani liberati spesso desiderano tornare, per una breve visita, al carcere dove hanno passato tanti anni di amarissima clausura”.

         Ma non fu una breve visita. Anche la sera il pesce se ne stava all’interno della boccia, e così all’indomani e così il terzo giorno successivo. Tanto che io persi la pazienza e gli parlai:

         “Caro pesce, scusa, ma mi pare che adesso tu passi il segno! Ho speso un mucchio di quattrini perché tu potessi nuotare a tuo piacere, tanto mi facevi pena sempre chiuso in quel piccolo vaso, e tu nel vaso ci ritorni, e ci passi giornate intere come se non te ne importasse niente di essere libero. Giuro che mi fai cadere le braccia!”

         Allora (siccome è una fandonia che i pesci sono muti e soltanto si nota in loro una certa difficoltà nel pronunciare la erre) allora l’animaletto mi rispose:

         “O uomo, come sei poco intelligente, e perdona la sincerità! Che strana idea della libertà tu hai! Non è l’uso della libertà che importa, anzi esso è di solito una cosa insulsa e volgarissima. Ciò che importa è la possibilità di usarne. Qui è il suo sapore più squisito. Io amo stare in questo vaso, che è così intimo e raccolto, propizio alle meditazioni solitarie. Ma so che quando voglio posso uscirne e fare lunghi viaggi nella vasca (per la quale tra parentesi ti sono estremamente grato).

         “Era un carcere questo vaso e adesso non lo è più, ecco la differenza. Non solo. Standomene qui rincantucciato, io vivo dal punto di vista materiale l’identica vita di una volta, quando ero prigioniero ed infelice. Ma proprio ciò mi permette di godere la beatitudine raggiunta. Così infatti non dimentico le pene già sofferte, traggo dal confronto una consolazione sempre nuova ed evito che l’abitudine alla vastità me ne annulli a poco a poco il gusto. Io sto nel carcere, ma la porta è aperta, e vedo fuori il mondo sterminato che mi aspetta, e tale vista mi rasserena il cuore. Se io invece, per sfruttare avidamente il bene in sorte, se io corressi a destra e a manca tutto il giorno senza fermarmi mai, a un certo punto sarei sazio. E la soddisfazione cesserebbe. E comincerei a desiderare mari sempre più grandi, vastità sempre più sconfinate, ciò che oggi non mi avviene. Insomma tornerei a essere infelice. Vedi dunque che della divina libertà nessuno sa godere più di me. E adesso, se vuoi farmi cosa grata, lasciami tranquillo nel mio buco”.

         Al che io, con la sensazione di avere fatto una pessima figura, mi ritirai balbettando vaghe scuse.

D. Buzzati, In quel preciso momento, Mondadori, Milano, 1963.

(in Contesti Italiani, di M. Piachiassi e G. Zaganelli)

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Troppa Medicina – Marco Bobbio

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É com imenso prazer que compartilho o lançamento do novo livro de Marco Bobbio – TROPPA MEDICINA – que estará nas livrarias italianas a partir do dia 14/02/2017.

Aos meus alunos e interessados convido a conhecerem o site http://www.troppamedicina.it organizado pelo autor para apresentar seu trabalho e enriquecê-lo com notícias e atualizações.

Grazie e arrivederci!

 

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Il cielo è di tutti – Gianni Rodari

Cappella degli Scrovegni

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi,
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio e del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
e ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.

Gianni Rodari, Il libro degli errori, Torino, Einaudi, 1994, p. 162

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