
Anni fa viveva a Erto una vecchietta con due figli maschi. Il tempo di questa storia è quello subito dopo l’ultima guerra. La donna allora aveva circa settant’anni, i figli trentanove e trentasei. Uno dei due, Zuliàn, il più vecchio, era una persona a posto. Lavoratore infaticabile, riusciva a fare il boscaiolo con l’impresa De Antoni e, nello stesso tempo, accudire due mucche e il maiale che allevava ogni anno per farne salami. Zuliàn non beveva, non fumava, non aveva donne, nemmeno una fidanzata. Non si concedeva il minimo lusso, neppure un paio di pantaloni nuovi per le feste. Era lui che manteneva la madre e il fratello poiché quest’ultimo, come spesso accade anche nelle migliori famiglie, era pecora nera. A differenza di Zuliàn, il fratello Zancàn beveva, fumava e andava a donne. Non lavorava mai, non recava il minimo apporto in famiglia. Nemmeno accendeva il fuoco nel camino. Quando beveva diventava cattivo e, invece del fuoco, accendeva risse nelle osterie. Più volte era tornato a casa pesto e sanguinante, ma qualche destro lo metteva a segno pure lui. D’estate, mentre il fratello si spaccava la schiena a falciare i prati dopo otto ore di bosco, Zancàn bighellonava lungo la strada del paese in compagnia di altri due sciagurati par suo. Se gli mancavano i soldi per bere, minacciava la madre, la quale, spaventata, gli sborsava un po’ della sua già scarsa pensione di vedova. Ma, occorre dirlo, l’uomo non aveva la testa del tutto a posto. A volte dava in escandescenze con vere e proprie manifestazioni di pazzia, che lo avevano portato a trascorrere brevi periodi nel manicomio di Feltre. Zuliàn portava pazienza perché capiva ma, soprattutto, perché voleva bene al fratello sfortunato. Solo una volta che minacciava la madre armato di bastone, lo stese con un diretto al mento. Un giorno, verso i primi di aprile, Zuliàn morì. Mentre con altri operai caricava piante su un vecchio camion BL, un tronco di quattro metri rotolò giù dal cassone e lo schiacciò. Dopo il funerale, Zancàn e la madre tornarono a casa. La vecchietta, nonostante il dolore, era terrorizzata all’idea di doversela vedere da sola con il figlio scriteriato. Nella sua testa indebolita s’agitavano scene drammatiche e il pensiero andava ai patimenti che avrebbe dovuto subire d’ora in avanti. Voleva morire e, nello stesso tempo, non voleva morire perché il figlio disgraziato sarebbe rimasto solo, in balìa di se stesso e della cattiveria altrui. Ma tutto questo non accadde. Il pazzo, dopo la morte del fratello, si comportò esattamente al contrario di quello che tutti si aspettavano. Diventò uomo serio, laborioso, irreprensibile. Sostituì degnamente Zuliàn in tutte le faccende di casa. Abbandonò i vizi e mollò le compagnie negative. Si occupò del bestiame e dei boschi e fece anche di più: dissodò dei terreni incolti per ricavarne campi di patate e un orto. Lavorava dall’alba al tramonto senza battere ciglio. La vecchia pensò a un miracolo e ringraziò Dio. La gente, invece, commentava il fatto con accenni di incredulità e stupore. Nell’osteria di Pilìn, durante una discussione sul cambiamento di Zancàn, Celio, famoso per i suoi silenzi interrotti soltanto da battute sarcastiche, esclamò: «Quando il savio viene a mancare, il matto fa giudizio». Zancàn non camminò mai più sui sentieri della perdizione e, fino all’ultimo giorno, fu esempio di rettitudine per tutti.
Mauro Corona, Nel legno e nella pietra, Milano, Mondadori, 2014, pp 23-24