Madre Na Tura decide di cambiare il mondo – Alberto Moravia

Un miliardo di anni fa, nell’isola Gala Pagos abitavano una donna e suo marito. Lei si chiamava Na Tura e lui Evo Luzione. Na era una donnona maestosa ma per niente placida come avviene spesso alle donne molto formose. Era ,invece, bisbetica, capricciosa, incostante, violenta, malinconica. Evo, il marito, era tutto il contrario: piccolo, magrolino, con un sospetto di gobba, la faccia sagace, occhialuta e benevola. Na non faceva nulla, diciamo che era una casalinga; Evo era uno studioso molto sgobbone che, a forza di studi, era diventato mago.

Adesso bisogna sapere che al tempo in cui si svolsero gli avvenimenti che stiamo per raccontare, l’isola Gala Pagos era molto diversa da quella che è oggi. Non tanto nell’aspetto fisico: nuda e rocciosa era allora, nuda e rocciosa è oggi; ma nella fauna. Diciamo pure che era abitata esclusivamente da una grandissima quantità di giganteschi rettili. Tra le rocce, sui pianori, in cima ai monti, nelle baie e intorno ai promontori, era tutto un brulichio di mostri uno più orrido dell’altro. Dovunque si trascinavano pesantemente colossali Dino Sauri con code e colli lunghissimi, teste minuscole, corpaccioni gonfi come botti. Ce n’erano di tutte le grandezze, di tutte le specie ma tutti avevano in comune la bruttezza più orrenda. Tutti questi mostri facevano un baccano del diavolo, muovendosi l’un l’altro una guerra continua: i carnivori tipo Tiranno Sauro mangiavano gli erbivori tipo Diplo Doco; ma il Diplo Doco non voleva saperne di essere mangiato benché il Tiranno Sauro ce la mettesse tutta; e così erano continuamente gigantesche zuffe, con i ruggiti e gli urli che giungevano alle stelle. Inoltre i mostri non si curavano di essere puliti; l’isola, con rispetto parlando, era tutto un solo cesso o mondezzaio. Ossami, carogne, detriti di ogni genere ricoprivano tutto il territorio, ammorbavano l’aria col puzzo.

Na Tura soffriva a vedere la sua isola ridotta in quel modo. Il puzzo, il chiasso, la sporcizia dei Dino Sauri l’angosciavano, la mettevano fuori di sé. Ma non poteva farci nulla perché questo mondo pieno di mostri era stata proprio lei a volerlo così. Alcuni miliardi di anni prima i rettili non c’erano; il mondo era fatto soltanto di acque sterminate e calmissime dalle quali, qua e là, emergevano bellissime isolette verdeggianti e fiorite. Un mondo sereno, silenzioso, calmo, beato. Ma Na; capricciosa e volubile com’era, si era molto presto stufata di questo mondo ideale; e aveva cominciato a tormentare Evo che era poi colui che, pur sempre su sua richiesta, aveva fatto il mondo a quel modo: “Guarda, distruggimi questo mondo così uggioso altrimenti io impazzisco dalla noia.” Evo allora le diceva: “Ma è il mondo che hai voluto tu.” “Sì, l’ho voluto io; e con questo?” “E come lo vorresti adesso?”“Lo vorrei più drammatico, più strano, più fantastico. Basta col mare che lambisce le sponde, coi venti che accarezzano le erbe, coi fiori che si levano verso il sole. Basta con questa melassa! Voglio un mondo che magari mi faccia orrore, ma mi scuota! Magari popolato di mostri! Sì, benvenuti i mostri se mi tirano fuori dalla noia.” Ed Evo allora, pronto: “Vuoi dei mostri? Bene, li avrai.” Questo in breve fu il motivo per cui di lì a poco (cioè dopo appena un milione di anni), il mondo si riempì di rettili colossali quanto orridi.

Ora però, l’incostante capricciosa Na passava il meglio del suo tempo a rimpiangere il mondo di prima così noioso ma anche così riposante. Se ne stava tutto il giorno rincantucciata in casa e si tappava le orecchie per non sentire i ruggiti, gli urli, i barriti e gli altri suoni orrendi che si levavano fin dall’alba nell’isola e non cessavano un solo momento fino a notte.

Ogni tanto Na urlava: “Basta, basta, basta, io impazzirò, si impazzirò”; ma Evo non le dava retta: la conosceva e sapeva che capricciosa com’era, doveva, come si dice, prima di tutto sbattere il naso contro la realtà, altrimenti, magari di lì ad un solo milione di anni, era capacissima di sfoderare di nuovo un altro capriccio. I mostri li aveva voluti lei, più orridi e più chiassosi che fosse possibile; adesso se li cibasse.

Ma ogni bel gioco dura poco; ed Evo si convinse che ormai Na era stata punita abbastanza. Così un giorno le disse: “Senti, Na, vedo le tue sofferenze e penso che sia tempo ormai di porvi fine. Questo mondo di mostri tu vuoi che non esista più. Benissimo, dimmi allora come lo vorresti. Cambiare il mondo è un’operazione molto difficile; non vorrei fare qualche sbaglio; perciò sarà bene mettersi d’accordo prima.”

Na stette sovrappensiero un bel po’; poi disse con voce ispirata: “Voglio un mondo diverso, completamente diverso da quello di oggi. Un mondo bello.”

“Sì, bello, ma come?”

“Leggero, leggero, leggero.”

“Leggero e poi?”

“Non voglio nulla che strisci, che si trascini, che arranchi.”

“Bene, niente che strisci, e ancora?”

“Non voglio questi colori orrendi, color fango, color bile, color sterco, color pece, color marcio. Voglio un mondo brillante e variopinto come l’arcobaleno.”

“Giusto, e che cos’altro?”

“Voglio,” disse Na chiudendo gli occhi, “invece che barriti, urli, ululati, ruggiti, voci che parlano, cantano, sussurrano, gorgheggiano, armoniose, melodiose, soavi.”

“Chi potrebbe darti torto? È tutto qui?”

“Un momento, adesso viene il più importante. Voglio che tutto ciò che adesso arranca sulla terra, voli, voli, voli. “Ad ogni “voli”, Na elevava un poco più la voce. Concluse: “Voli via e magari non torni mai più.”

Evo disse:”Dunque: degli animali, leggeri, variopinti, parlanti e volanti. Vediamo un po’. Prima di tutto troviamo un nome. Trovato il nome il più è fatto. Che ne dici di: cantivolanti oppure parlivolanti?”

“Che vuol dire?”

“Che volano e insieme cantano o parlano.”

“Troppo complicato.”

“Allora: ariestri.”

“E cioè?”

“Come terrestri, no?”

“Non mi piace.”

Evo si grattò la testa e poi disse: “Metterò due diminutivi in fila per indicare quanto sono carini: ‘ucci’ ed ‘elli’: cioè uccelli.”

Na disse: “Mica male. Vada per uccelli.”

Adesso restava il problema: che fare dei mostri? Na, sempre eccessiva, voleva sterminarli: “Voglio vederli morire tutti, al più presto, dal primo fino all’ultimo, di sete, di fame, di freddo, di fuoco, di terremoto, di maremoto, di fulmine, di eruzione. Guarda, solleviamo un’ondata sola che si abbatta sull’isola e la tenga sott’acqua non più di dieci minuti. Ma, per carità, facciamolo subito.”

Evo, però, non la intendeva in questo modo: “Perché ammazzarli, perché distruggerli? Dobbiamo invece fare le cose per gradi, senza scosse, senza rotture della continuità. I mostri non saranno sterminati, semplicemente si estingueranno per mancanza di prole.”

“E come farai, se si moltiplicano come conigli?”

“Inventerò una bestiolina graziosa che chiamerò cane e sarà ghiottissima delle uóva dei mostri. I quali così moriranno di vecchiaia ma senza discendenti.”

“Le pensi tutte, tu, ”disse Na già un po’ consolata, “adesso parliamo degli uccelli. Come farai a inventarli?”

“Anche per loro ci vorrà un po’ di tempo: appena qualche milione di anni. Devi sapere che tanti piccoli rettili hanno le squame della corazza fatte di una materia molto docile, molto plastica. Con un po’ di pazienza, in capo a, diciamo, trecento milioni di anni, confido di trasformare queste squame in qualche cosa di leggero, di morbido e di mobile che chiamerò piume. Queste piume, distribuite sulle braccia saranno delle ali. Con le ali gli uccelli voleranno.”

Na batté le mani dalla gioia:“Oh che bello!”

E così fu. Il cane si mangiò le uova dei mostri; i mostri morirono di vecchiaia, senza lasciare discendenti; l’isola si riempì di giganteschi scheletri biancheggianti. Adesso regnava il silenzio; in questo silenzio si sentiva la voce di Evo che diceva alla moglie: “Pazienza, ci vuole pazienza, chi va piano, va sano e va lontano. Tra poco ti presenterò il primo uccello, vedrai come è bello!”

“Tra poco quando?”

“Eh, soltanto cinquanta milioni di anni.”

Così venne quel giorno tanto aspettato. Evo presentò alla moglie, inerpicato sulla sua spalla, il primo uccello mai creato: variopinto pennuto, parlante. Insomma, un bellissimo pappagallo. Evo disse alla moglie:“Eccoti Lo Reto. Lo Reto di’ qualche cosa alla padrona.”

Lo Reto si alzò più che poté sulle zampe, si gonfiò tutto e lanciò in faccia a Na: Vecchia megera!”

Così si ruppe il matrimonio tra Na e Evo. Offesa, pensando che il marito avesse addestrato Lo Reto per insultarla, Na se ne andò, lasciando Evo a perfezionare i suoi uccelli. I quali, come è noto, cantano ma non parlano: Evo non aveva voluto ripetere l’errore del pappagallo. Ma cosa succederà il giorno che moglie e marito si riconcilieranno? Non avrà forse Na un altro dei suoi capricci, non vorrà forse cam-biare di nuovo il mondo?

Alberto Moravia, Storie della preistoria, Milano, Bompiani, 1989, pp 120-125

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